Mi sono sposata tre anni fa. Ancora non abbiamo figli, anche se l’idea di diventare madre mi frulla in testa da un po’. Per tutto questo tempo, io e mio marito abbiamo vissuto in affitto nel centro di Bologna — non perché non potessimo permetterci altro, ma perché mia suocera, Lydia Bianchi, non ci ha mai permesso di entrare nel suo monolocale, rimasto vuoto per anni.
Ha cresciuto Luca — mio marito — da sola. L’appartamento gliel’aveva assegnato la fabbrica tessile dove aveva lavorato per vent’anni. Poi si è risposata.
— Il mio patrigno era una brava persona, mi ha davvero fatto da padre — raccontava mio marito. — Ma con mia madre litigavano sempre. Lei si lamentava in continuazione che i soldi non bastavano, non le era mai abbastanza nulla.
Il patrigno aveva una figlia dal primo matrimonio. Voleva adottare Luca, ma Lydia era contraria — temeva di perdere i sussidi statali. Quando si trasferì dal nuovo marito, chiuse a chiave il monolocale e non lo affittò mai. Non c’era nemmeno bisogno di ristrutturarlo, diceva, tanto era inutile.
Dopo il matrimonio, le chiedemmo se potevamo vivere lì — modesto, ma nostro. Ma non volle neanche sentirne parlare:
— Ci stiamo per divorziare — annunciò. — È un avaro, un fannullone, non serve a niente. Io resto con lui solo per interesse. Se poi ci lasciamo, dove vado se voi vi siete già sistemati lì?
E infatti, poco dopo, chiese il divorzio. Ma non si sbrigò a lasciare la casa del marito. Poi arrivò la disgrazia: il patrigno morì. Lydia era convinta che il bilocale sarebbe stato suo. Invece, l’eredità era intestata alla figlia di lui.
Nel frattempo, morì anche mia nonna, che già anni prima mi aveva lasciato il suo accogliente bilocale. Io e Luca iniziammo a ristrutturarlo, pronti a trasferirci. Ma tutto fu rovinato dall’isteria di Lydia.
— L’ho accudito io, mentre quella sua figlia non si faceva nemmeno vedere! Gli ho preparato i pasti, gli ho portato le medicine. E ora lei, quella Alessia, erediterà tutto e vivrà a Milano, mentre io devo tornare in quel monolocale umido! E questa sarebbe giustizia? — urlava al telefono.
Ma si era creata tutti questi problemi da sola: aveva rifiutato l’adozione, non aveva voluto vivere con noi. Discutere era inutile. Così dovette rientrare in quel vecchio monolocale vuoto e trascurato. Senza mobili, senza comfort. Solo quattro mura.
A Luca fece pena. Decise di sistemare un po’ la casa, almeno con una mano di vernice. Io, dal canto mio, proposi di portarle i mobili della nonna — tanto li avremmo comunque sostituiti con nuovi. Erano puliti, solidi — magari non nuovissimi, ma ancora buoni.
Lydia aveva portato via qualcosa dalla casa del marito defunto, ma si trattava per lo più di elettrodomestici a incasso, che non aveva senso smontare. E l’erede del patrigno — furba — non le lasciò nulla di valore.
Quando consegnammo i mobili, fece una scenata:
— Cos’è questa roba? Mi avete portato la spazzatura della cantina? Mio marito è morto, e voi vi comportate come se fossi una mendicante! Voi vi comprate tutto nuovo, e a me date le vostre cianfrusaglie? Vergogna! — strillò in mezzo alle scale.
Eppure il divano della nonna aveva solo quattro anni, e lei ci aveva dormito a malapena. La mobilia nuova, poi, ce l’avevano regalata i miei genitori. Perché Lydia credesse che dovessimo arredarle casa da zero, resta un mistero. Pretese addirittura che riportassimo tutto indietro, accusandoci: — Avete i soldi per il restauro, ma per vostra madre no.
Ce ne andammo senza dire una parola. I mobili rimasero nel corridoio. Pensavo che Luca sarebbe tornato nel weekend a riprenderli. Invece no. Lydia chiamò un vicino e li trascinò dentro da sola. Immagino abbia capito che fare la difficile non conveniva, soprattutto con le tasche vuote.
Così vive ancora lì. Piena di rancore, con mobili di seconda mano, ma con la sua dignità intatta. Peccato che la dignità, però, non cucini la cena e non riscaldi il letto la notte.