Era un tempo in cui mia suocera pretendeva il mio aiuto ogni fine settimanafinché decisi di dire basta. Non ero una domestica, e nessuno avrebbe dettato i miei ritmi.
Sin dallinizio del mio matrimonio, feci di tutto per andare daccordo con lei. Per otto anni, strinsi i denti e accettai con rassegnazione. Dopo che io e mio marito lasciammo la campagna per trasferirci a Firenze, sua madreGiovanna Rossetticominciò a chiamarci ogni settimana. Sempre la stessa storia: «Venite questo weekend, abbiamo bisogno di aiuto!» A volte per sistemare le patate, altre per zappare lorto o persino per aiutare sua figlia minore, Fiammetta, a mettere la carta da parati. E ogni volta, andavamo. Come burattini.
Ma non avevo più ventanni, e la mia vita non era certo una passeggiata. Lavoravo cinque giorni su sette, crescevo due figli, gestivo la casa. Anchio meritavo una pausaalmeno una domenica per riprendere fiato.
Per Giovanna, però, eravamo manodopera gratuita. Al minimo accenno di stanchezza, ribatteva: «E chi lo farà, se non tu?» Daccordo. Ma non erano mai vere emergenze. Una volta, mi chiese di non andare da lei solo per mandarmi da Fiammetta a ridipingere il salotto. Ci andai, come una sciocca. E indovinate? Mentre mi affannavo con metro e pennello, quella principessa di Fiammetta se ne stava davanti allo specchio, ammirandosi la nuova manicure e preparando lennesima tisana.
Mio marito vedeva tutto. Non era stupido, capiva che approfittavano di noi. Ma non apriva mai boccadopotutto, era sua madre. Così continuai a stringere i denti. Finché un giorno…
Un sabato, smisi semplicemente di accompagnarlo da lei. Senza drammi. Senza spiegazioni. Rimanemmo a casa, dicendo di avere altri impegni.
Naturalmente, Giovanna non gradì. Subito chiese a suo figlio perché fossi improvvisamente così ingrata. Mio marito mi supplicò: «Andiamo, almeno per farle piacere». Ma ne avevo abbastanza di quella commedia.
Avevo trentacinque anni. Il diritto di riposarmi, non di servire chi non muoveva neppure un dito. Da loro non vedevo gratitudine né rispetto. Solo pretese.
Quel weekend, mi occupai finalmente della mia casa. Lasciai andare il bucato accumulato, cucinai un vero pasto, e la domenica mi concessi un libro, distesa sul divano. Una pura gioia. Finché qualcuno bussò alla porta.
Fiammetta.
Senza un saluto, senza la minima educazione, mi urlò addosso la sua rabbia: ero egoista, maleducata, una traditrice della famiglia. Mi ricordò il mio doveredato che ne facevo parte.
Lascoltai, le augurai una buona giornata, e chiusi la porta.
Ma non finì lì. Quella sera stessa, Giovanna si presentò a casa mia. Appena entrata, mi accusò di ingratitudine, di disprezzomentre lei aveva dato tutto. La guardai, e tutte quelle ore passate a cucinare, pulire, zappare mi tornarono in mente.
E ora, davanti a me, osava farmi la predica.
Era troppo.
Senza una parola, aprii la porta e le indicai luscita. Sconvolta, borbottò qualcosa prima di andarsene. Tornai al mio libro, e per la prima volta dopo anni respirai.
Non era rabbia. Era libertà. La certezza che il mio tempo apparteneva solo a me. E se dovevo qualcosa era a me stessa, e ai miei figli.
Quella notte, mi addormentai con il cuore leggero. Finalmente libera.