Trasferire papà in una casa di riposo: il tormento di Elisa tra sensi di colpa, ricordi dolorosi e un destino segnato da una vita famigliare difficile

Ma che ti sei messa in testa, un ospizio? Assolutamente no! Non mi muovo dalla mia casa! urlò il padre di Elisabetta Romano, lanciando una tazza contro la figlia e mirando alla testa. La donna, ormai abituata, schivò il colpo senza fatica.

La situazione era diventata insostenibile. Prima o poi, lui avrebbe trovato un modo per farle del male e lei non avrebbe saputo da dove arrivasse il colpo. Eppure, mentre firmava le carte per trasferire il padre in una residenza per anziani, Elisabetta era sopraffatta dal senso di colpa. Nonostante tutto, stava facendo anche troppo per lui, se pensava a come laveva trattata durante tutta la sua vita.

Il padre salì in macchina urlando, si divincolava e lanciava insulti contro chiunque fosse coinvolto nello spostamento.

Elisabetta rimase alla finestra, osservando lauto che si allontanava. Era una sensazione che aveva già provato, ma allora era solo una bambina e non immaginava come sarebbe stata la sua vita.

Elisabetta era figlia unica. Sua madre non aveva avuto il coraggio di mettere al mondo un altro figlio: il marito era un vero despota, che trasformava la vita familiare in un incubo.

Il padre, Marco Romano, aveva superato i quarantanni quando nacque Elisabetta. Aveva scelto di sposarsi solo per migliorare la propria carriera: nella sua mente il matrimonio non era mai stato una questione damore, né tantomeno di procreazione. Nessuno, nemmeno la propria figlia, aveva mai contato per lui più di se stesso. Si era sposato solo per costruirsi la reputazione di uomo di famiglia, necessaria per scalare le gerarchie del Comune. Aveva cercato tra le conoscenti e aveva scelto Lucia, una giovane studentessa allultimo anno di ragioneria, figlia di operai di una fabbrica locale di Firenze. Per la famiglia di Lucia un simile matrimonio era quasi un onore. Nessuno le chiese cosa ne pensasse. Le nozze, celebrate con grande pompa, videro però assenti i genitori della sposa: la loro posizione sociale non era adeguata allevento.

Lucia si trasferì nella casa di Marco. Per formarla come perfetta moglie di un funzionario, le affiancarono una governante che doveva istruirla su etichetta, discrezione e silenzio su ciò che non era di sua competenza.

Allora, comè andata la giornata? chiedeva Marco al ritorno dal Comune, sprofondandosi in poltrona.

Tutto bene. Ho studiato il galateo, ho iniziato il corso dinglese, rispondeva Lucia, conscia che limportante era non dare mai occasione di lamentela a marito.

E la casa? Cè chi la gestisce? continuava lui.

Sì, ho fatto la spesa, cucinato insieme alla cuoca, pensato al menù della settimana e riordinato.

Va bene per ora. Ma ricordati: voglio una moglie ordinata e in ordine, non una contadina. Se ti comporti bene magari prendo cuoca e autista, ma non adesso. Prima devi meritarteli.

Nonostante tutto limpegno di Lucia, i giorni tranquilli erano rari. Marco rincasava spesso tardi, nervoso e stanco, pronto a sfogarsi sulla moglie: ai domestici non poteva troppo; avrebbero potuto sparlare o licenziarsi. Lucia invece era sola, non aveva nessuno a cui confidarsi e nessun posto dove andare.

Il primo schiaffo arrivò un mese dopo le nozze. Non per una colpa precisa ma, come precisò lui, per far capire chi comandava. Poi le botte divennero più frequenti, sempre con attenzione a non lasciare segni visibili. Lucia imparò a nascondere i lividi sotto i vestiti e a sorridere agli amici e colleghi del marito durante le serate a casa.

Passò un anno. Gli amici iniziarono a punzecchiare Marco: Ma come, ancora nessun figlio dalla giovane moglie? Forse è ora farla vedere da un dottore, stai perdendo tempo prezioso

Non abbiamo ancora pianificato, tagliava corto Marco, Lucia deve finire la scuola.

Che scuola dEgitto! Una donna deve pensare a figli, marito e casa. Dille di mollare gli studi e di farsi visitare: la famiglia viene prima di tutto!

Così iniziò per Lucia il ciclo infinito di visite mediche. Marco, per paura che qualche medico notasse lividi, smise anche di picchiarla per un po. Dopo vari controlli, emerse che Lucia era in salute. Era lui, Marco, a soffrire di un problema, come gli lasciò intendere un medico.

Io? Ma che dici? sbottò Marco, minacciando il medico.

Anche se mi facesse licenziare, il suo problema resterebbe, rispose calmo il medico, abituato ai personaggi influenti.

Dopo esami e referti, la realtà fu cruda: Marco aveva poche possibilità di diventare padre. La frustrazione, alimentata dai commenti dei colleghi e dalla salute radiosa della moglie, lo rese ancora più irascibile. Colpire Lucia aveva perso senso, ormai lei neanche reagiva più: non piangeva, non si lamentava. Si era trasformata in una statua.

Per distrarsi, Marco aveva trovato unamante e ciò sembrò calmarlo per un po. Passarono quasi tre anni prima che la tanto attesa gravidanza arrivasse. Nacque Elisabetta, identica al padre. Ma Marco non provò alcun affetto: a occuparsi della bambina furono madre e tata. Lui poteva anche non vederla per settimane senza sentirne la mancanza. Tuttaltro: più Elisabetta cresceva, più lo infastidiva.

Alla prima reazione della figlia, che aveva solo cinque anni un capriccio, una pretesa da nulla Marco, dopo una giornata negativa al lavoro, la buttò contro il muro con tanta forza da farla restare immobile dalla paura. Lui, sereno, si sedette a guardare la televisione.

Elisabetta imparò la lezione: mai più irritare papà. Ma tanto ormai Marco aveva perso ogni inibizione, la trattava con durezza anche davanti a ospiti.

Romano, ho sentito che tua figlia è bravissima con il violino. Non ce la fai suonare qualcosa?

Il violino? Ma questa oca non ha neanche capito da che parte si tiene! Se proprio vi volete far del male, provate a chiederglielo! Elisabetta, non hai sentito? Vai a prendere quel tuo coso!

E lei, rossa di vergogna, prendeva lo strumento e piegata dalla paura suonava: meglio quello, che far arrabbiare il padre. Da quel giorno il terrore di esibirsi non la lasciò più. La carriera musicale di Elisabetta rimase solo un sogno: dopo la scuola di musica non toccò mai più un violino.

Guardava le immagini nelle fiabe di famiglie felici, chiedendosi: Ma davvero gli altri vivono così? Perché sono nata nella famiglia sbagliata?

Neppure la madre fu un esempio: non aveva mai amato la figlia, nata da quelluomo crudele. Quando Elisabetta aveva tredici anni, un incidente dauto portò via Lucia. Almeno, questa fu la versione ufficiale. Elisabetta, chiusa nel proprio dolore, non seppe mai nulla di diverso.

Finite le superiori, Elisabetta si iscrisse alluniversità nella facoltà scelta dal padre. Era una delle ultime decisioni prese per lei da Marco, che nel frattempo, travolto dai problemi sul lavoro, iniziava a perdere influenza e patrimonio. Tutti i risparmi andarono in avvocati e tangenti: doveva evitare lo scandalo per i torti commessi in Comune. Fortunatamente, riuscì a passare inosservato e a ritirarsi in una vecchia casa di campagna. Elisabetta non gli faceva visita: non erano rimasti argomenti, né voglia di farsi insultare.

Rimasto solo, Marco iniziò a mostrare segni di squilibrio. I vicini iniziarono a telefonare spesso a Elisabetta, preoccupati dal suo comportamento. Alla fine, Elisabetta si convinse a portarlo a casa propria.

Riacquistata la possibilità di tormentare la figlia, Marco sembrò persino rinvigorito: ogni giorno urla, offese, piatti rotti, oggetti sparsi. Elisabetta lo relegò a una stanza con la porta chiusa a chiave, ma nemmeno questa misura servì. Quando la demenza cominciò a farsi evidente, Elisabetta prese la decisione: trasferirlo in una casa di riposo.

Elisabetta non si era mai costruita una famiglia. Le sue insicurezze la tenevano lontana dalle persone, galleggiava in superficie anche al lavoro, senza unamicizia vera. Nessuna collega era mai diventata una confidente. Ma decidere di portare il padre in casa di riposo fu una sofferenza.

La convivenza era diventata un pericolo per la sua incolumità; i medici le confermarono che Marco aveva iniziato a perdere la lucidità. Eppure, anche quando ormai non la riconosceva più, la malvagità e lastio per la figlia rimanevano.

Elisabetta visitò tutte le residenze per anziani della città. Quella che le parve più adeguata chiedeva una cifra elevata, il corrispettivo di più della metà dello stipendio mensile. Iniziò a lavorare part-time in una libreria il fine settimana, per farcela con laffitto e le spese.

Dopo il trasferimento del padre, Elisabetta si sentì svuotata. Le tornava alla mente quel lontano giorno in cui, insieme alla madre, tentò la fuga. Fu lunica volta in cui Lucia cercò di lasciarlo, ma Marco le riprese entrambe; poco dopo la madre morì.

Ogni volta che Elisabetta andava a trovare il padre, veniva colta da una struggente tristezza e senso di colpa, quasi fossero le uniche emozioni che le avevano insegnato.

Col tempo, la salute di Elisabetta peggiorò sempre di più, vessata dal rimorso e dal passato. Ma piano piano, osservando i sorrisi, i piccoli gesti di affetto tra gli anziani nella casa di riposo e sentendo la gratitudine del personale, capì: la responsabilità non era stata solo sua.

Nel cuore di Firenze, tra le ombre dolorose della sua vita, Elisabetta comprese che non sempre è giusto sacrificarsi oltre il possibile per chi non ha saputo amare, e che il perdono verso se stessi è necessario per ricostruire la serenità. Lamore, se mai lo avesse trovato, avrebbe dovuto cominciare dentro di sé.

Perché spesso la forza più grande non è sopportare tutto, ma trovare il coraggio di liberarsi dal passato e scegliere, finalmente, la propria felicità.

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