Tre lettere senza mittente

Tre lettere senza indirizzo di ritorno

Era silenzio puro, né vento, né fruscio di foglie, né canto di uccelli. Pareva che persino la natura fosse ferma in un eterno riposo. Anche la gente intorno alla bara aperta e alla fossa scavata stava in silenzio. Giulia teneva il padre per il braccio. Lui sembrava perso, curvo, gli occhi fissi sulla mamma.

Poco distanti c’erano gli amici dei genitori: Margherita e suo marito Vincenzo. Giulia li conosceva da sempre, li chiamava per nome. Margherita si asciugava gli occhi col fazzoletto, mentre Vincenzo guardava oltre la bara, verso l’orizzonte. Di fronte a Giulia e al padre c’erano tre colleghi della mamma, con il naso rosso e gli occhi gonfi di pianto. E altre persone che Giulia non aveva mai visto. Ma se erano lì, dovevano aver conosciuto la mamma.

Nessuno si avvicinava più a salutarla, nessuno porgeva condoglianze. Si erano già tutti congedati all’obitorio, dove si era tenuto anche il rito funebre. Ora aspettavano solo la fine della cerimonia.

Giulia incrociò lo sguardo dei due becchini. Quello che sembrava il capo, come se avesse aspettato quel momento, chiese con un cenno: “È ora?” Giulia annuì appena. I due si mossero, presero il coperchio appoggiato a un albero e lo avvicinarono alla bara.

“Tutti hanno salutato? Chiudiamo,” disse il capo.
Ma allora si sentì una voce bassa ma decisa:

“Aspettate!”

Tutti si voltarono verso chi aveva parlato. Un uomo alto, con spalle larghe, avvolto in un cappotto lungo nero e un cappello a tesa larga si avvicinò alla bara. I becchini restarono fermi, il coperchio in mano. L’uomo posò due rose bianche e coprì con la mano quelle della mamma, incrociate sul petto, come per scaldarle. Rimase così per qualche minuto, mentre gli altri lo osservavano, chiedendosi chi fosse. Uno dei becchini tossì, come per sollecitarlo. Lo sconosciuto ritirò la mano e fece un passo indietro. Finalmente, i becchini chiusero la bara, fissarono il coperchio con le viti e la calarono nella fossa. Giulia fu la prima a gettare una manciata di terra.

Mentre i becchini riempivano la fossa, Giulia cercò con lo sguardo l’uomo col cappello, ma era già sparito. Quando la lapide e le corone furono posate sul tumulo fresco, la gente cominciò a lasciare il cimitero. Giulia e il padre rimasero ancora un po’, soli.

“Papà, andiamo,” disse Giulia, e lui si lasciò condurre via.

Per tutta la strada, Giulia si chiese chi potesse essere quell’uomo. Era arrivato in silenzio e sparito allo stesso modo. Aveva la testa china, il volto nascosto dal cappello. Giulia aveva intravisto solo un mento ben rasato e forse degli occhiali, anche se non ne era sicura.

Il pranzo funebre si tenne in una trattoria vicino a casa. A Giulia non andava giù niente. Era stremata e voleva solo che tutto finisse in fretta. Alla fine, gli ospiti cominciarono ad andarsene. Lei e il padre furono gli ultimi. Giulia lo teneva ancora per il braccio, mentre con l’altra mano stringeva al petto il ritratto incorniciato della mamma, identico a quello lasciato sulla tomba.

“Come stai?” chiese a suo padre.

Lui annuì senza parlare.

“Papà, chi era quell’uomo al cimitero?” domandò lei.

“E come faccio a saperlo?”

Nella voce di lui c’era un’ombra di irritazione. Rimasero in silenzio fino a casa. L’appartamento odora ancora di medicine e malattia, nonostante Giulia avesse lasciato tutte le finestre aperte.

Il padre si sdraiò subito sul divano, chiudendo gli occhi. Giulia lo coprì con una coperta e si sedette accanto a lui.

Lanciò un’occhiata alla camera da letto, dove la mamma aveva passato i suoi ultimi giorni. “Ha smesso di soffrire,” ripeté tra sé, ricordando le parole di quasi tutti quelli che erano venuti al funerale. Avevano smesso di soffrire tutti. La mamma, per la malattia terribile che l’aveva consumata. Giulia, per la tensione, l’ansia e l’attesa della fine. Il padre, per l’impotenza di non poter fare nulla.

Le salirono le lacrime agli occhi. Si rifugiò in cucina, appoggiò la testa sulle braccia incrociate sul tavolo e pianse in silenzio.

Con il tempo, il dolore si attenuò. Giulia rimosse dalla camera della mamma tutto ciò che ricordava la sua malattia. Tornò all’università, ma si sentiva vuota e sola.

Il padre era sempre silenzioso, si muoveva trascinando le pantofole come un vecchio. Quel rumore e quel mutismo la irritavano. Con il suo atteggiamento, sembrava dire quanto fosse difficile per lui. Ma forse per Giulia non era più facile? Aveva perso la mamma. E ora tutto il peso della casa e delle cure per il padre ricadeva sulle sue spalle.

“Papà, cosa facciamo dei vestiti della mamma? A me non vanno bene,” chiese un giorno, solo per costringerlo a parlare.

“Non lo so. Dalli a qualcuno.”

Facile a dirsi. Ma a chi? Nel weekend, decise di sistemare le cose della mamma. Quello che era ancora buono lo mise da parte, per pensarci dopo. Il resto lo infilò in un sacco e lo portò al cassonetto. Non era dispiaciuta, solo un po’ a disagio.

Le scarpe della mamma non le andavano bene neanche quelle. Lasciò le vecchie accanto ai bidoni, magari potevano servire a qualcuno. In una scatola trovò un paio di scarpe bianche a punta, nuove di zecca. Non ebbe cuore di buttarle. Le provò: troppo grandi. Mentre le rimetteva nella scatola, intravide sul fondo tre lettere ingiallite, di vent’anni prima. Due indirizzate alla mamma, a un mese di distanza l’una dall’altra, la terza due anni dopo. Nessuna aveva un indirizzo di ritorno.

Perché la mamma le aveva nascoste lì? Perché non le aveva bruciate? Leggere la posta altrui è sbagliato, ma la mamma non c’era più. E forse neanche chi le aveva scritte. Giulia continuò a sistemare le cose, ma ogni tanto guardava quelle lettere.

No, non avrebbe avuto pace finché non le avesse lette. Se fossero state davvero segrete, la mamma non le avrebbe conservate. Forse le aveva tenute perché un giorno qualcuno le trovasse. E poi, non erano poi così ben nascoste. Forse se ne era dimenticata? Se nella scatola ci fossero state solo scarpe vecchie, Giulia le avrebbe buttate via senza pensarci. Insieme alle lettere.

Da tutto questo, Giulia concluse che la mamma aveva messo quelle lettere lì apposta, sotto un paio di scarpe nuove, perché lei le trovasse. Non poteva sapere che alla figlia non sarebbero andate. Senza più esitare, prese la prima lettera.

…Sei la mia felicità. Non sono ancora partito e già mi manchi, non trovo pace… Grazie per essere stata nella mia vita. Penso sempre a te, ti amo…
Chiaro. Una lettera d’amore, di un uomo che aveva lasciato la sua amata.

Giulia passò alla seconda.

…Lo temevo, ma era inevitabile. Grazie per avermelo detto… Cosa pensi di fare? Sai che sono sposato, non te l’ho mai nascGiulia chiuse gli occhi, sorrise tra le lacrime, e decise che alcuni segreti, anche se scoperti, meritavano di rimanere sepolti nel passato, dove non avrebbero più fatto male a nessuno.

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