**Diario di un padre**
Trovai un bambino sotto una betulla e lo cresci come fosse mio. Ma chi lavrebbe mai immaginato
«Cosa ci fai qui?» restai senza parole, incapace di credere ai miei occhi.
Sotto una vecchia betulla, avvolto in un tappeto di foglie secche, cera un bambino. Un ragazzino magro di circa quattro anni, con una giacca troppo leggera, tremava mentre si stringeva a sé. I suoi occhi spaventati fissavano me, il guardaboschi.
Guardai attorno con cautela. Non cera anima viva: solo il vento che muoveva gli aghi dei pini e, ogni tanto, il crepitio di un ramo.
Mi chinai con delicatezza, cercando di sembrare meno minaccioso.
«Come ti chiami, piccolino? Dove sono i tuoi genitori?»
Il bambino si strinse alla corteccia ruvida della betulla. Le labbra gli tremavano, ma invece di parole, uscì un lieve sussurro.
«G… Gi… Giacomino», disse infine.
«Giacomino?» Tesi una mano, ma lui indietreggiò. «Non aver paura. Non ti farò del male.»
Il crepuscolo avvolgeva il bosco. La temperatura calava e il bambino tremava. Chi poteva averlo abbandonato lì? Il paese più vicino era a trenta chilometri, e la strada era lunga.
«Vieni con me», dissi con dolcezza. «A casa mia cè caldo e cè da mangiare.»
Alla parola “mangiare”, un lampo di interesse brillò nei suoi occhi.
Mi tolsi la giacca imbottita e, con attenzione per non spaventarlo, gliela misi sulle spalle fragili. Giacomino non si oppose.
«Ecco», sussurrai, sollevandolo tra le braccia.
Leggero come una piuma. Le ossa si vedevano sotto la pelle. Era chiaro che non mangiava da giorni.
Camminammo nel bosco, e sentii che il suo tremito si calmava poco a poco. Presto, una piccola casa apparve tra gli alberi: un portico malconcio e una sottile fumatola che usciva dal camino.
«Siamo arrivati», annunciai, spingendo la porta con un piede.
Lodore di erba secca e legna bruciata riempì la stanza. Il fuoco ormai basso proiettava bagliori rossastri sul tavolo grezzo e sulla panca di legno.
Lo feci sedere, aggiunsi legna al camino, e le fiamme ripresero vita, illuminando il viso impaurito del bambino.
«Ti scalderai», dissi, mettendo una pentola sul fuoco. «Poi parleremo.»
Mangiava con voracità, soffocandosi ogni tanto. Lo osservavo, e qualcosa dentro di me si mosse. Quanti anni erano passati dallultima volta che avevo badato a un bambino? Dieci? Quindici? Da quando
No. Non ora.
«Da dove vieni, Giacomino?» chiesi quando il piatto fu vuoto.
Scosse la testa.
«Mamma Papà dove sono?»
Annuì di nuovo, e le lacrime gli rigarono le guance.
«Io non lo so», sussurrò.
Sospirai. «Domani dovremmo andare in paese a parlare con il maresciallo. Un bambino non può apparire dal nulla, qualcuno lo starà cercando.»
«Stasera resti qui», conclusi. «Domani decideremo cosa fare.»
Lo sistemai sotto una coperta pulita ma logora, vicino al fuoco. Si rannicchiò in un angolo, con lo sguardo vigile.
A notte fonda, mi svegliai per un pianto sommesso. Giacomino era seduto sulla panca, le ginocchia strette al petto, piangendo in silenzio.
«Ehi», lo chiamai. «Vieni qui.»
Bussai leggermente sul letto accanto a me. Esitò, diviso tra paura e fiducia. «Dai», lo incoraggiai dolcemente. «Non aver paura.»
Scese con cautela e, dopo qualche passo incerto, si infilò sotto le coperte con me.
«Dormi», dissi. «Non ti succederà niente.»
Allalba, mi preparai per scendere in paese. Esitai, guardando Giacomino che dormiva. Dovevo portarlo con me? Lasciarlo qui? E se si svegliava da solo?
Alla fine, decisi di svegliarlo.
«Andiamo in paese», dissi. «Dobbiamo trovare chi ti ha perso.»
Giacomino aprì gli occhi di colpo.
«No!» gridò, per la prima volta con voce chiara. «Non andare senza di me!» mi strinse la mano.
«Perché?» mi chinai verso di lui. «I tuoi genitori ti staranno cercando.»
Scosse la testa, lo sguardo pieno di paura.
«Non cè la mamma», sussurrò. «Non cè il papà.»
Una stretta al cuore: riconobbi quellespressione. La disperazione di chi ha perso tutto.
«Va bene», dissi dopo un momento. «Oggi resti qui. Ma domani andremo comunque. Capito?»
Annuì, ancora stretto alla mia mano.
Tre settimane dopo, finalmente arrivai in paese.
Preparammo la minestra sul fuoco, con patate, cipolle ed erbe del bosco.
Le fiamme illuminavano i nostri volti: uno segnato dagli anni e dalla barba grigia, laltro giovane e lentigginoso. Ma gli occhi erano uguali: vivaci, seri e attenti.
«Tra una settimana andrai a scuola», mormorai, mescolando la minestra. «Sei nervoso?»
Si strinse nelle spalle.
«Un po. E se i bambini mi prendono in giro?»
«Per cosa?» chiesi sorpreso.
«Perché non sono mai andato a scuola. Perché sono diverso.»
Lasciai il cucchiaio, lo attirai a me e dissi piano:
«Ascoltami: sì, sei diverso da loro. Ma sei meglio.» Hai affrontato un cinghiale nel bosco. Sai accendere il fuoco con un fiammifero solo. Sai come profuma la terra dopo la pioggia.
E vai in prima elementare. Nessuno sa cosè la scuola finché non ci va, nemmeno loro.
Mi guardò.
«Davvero?»
«Certo», conclusi, gli scompigliai i capelli biondi. «E unaltra verità: io ci sarò sempre. Sempre.»
Arrivò il primo settembre, luminoso e sereno. Giacomino, con la camicia nuova e lo zaino, aspettava sulla porta. Mi sistemai il colletto.
«Pronto?»
Annuì. Insieme, percorremmo la strada del paese verso la scuola: un edificio bianco con una bandiera. I bambini entravano a gruppi con mazzolini di fiori, i genitori scattavano foto.
Sulla soglia, rallentò.
«Papà», disse finalmente, e io rimasi immobile, senza voler interrompere quel momento. «Mi aspetti qui?»
«Certo», risposi con voce roca. «Proprio qui. Vai.»
Inspirò profondamente e oltrepassò la porta, mescolandosi agli altri. Io rimasi fermo, osservando lingresso con un sorriso tenero. La brezza mi scompigliava i capelli.
Mio figlio iniziava la scuola, come doveva essere. Il cerchio si era chiuso: la solitudine aveva lasciato spazio al calore di una nuova vita, piena di senso, amore e speranza.
**Lezione:** A volte, il destino ci porta un figlio non per sangue, ma per scelta. E quella scelta può diventare la più grande benedizione.