Tutti avevano il telefono per filmare il bambino morente, ma solo il motociclista ha cercato di salvarlo

Tutti filmavano il bambino morente, ma solo il motociclista tentò di salvarlo.

Il vecchio centauro si inginocchiò sul selciato, iniziando la rianimazione cardiopolmonare mentre la folla continuava a registrare, troppo impaurita per agire. Io rimasi nel mio auto, paralizzata, osservando quelluomo di settantanni, con la giacca di pelle strappata, che comprimeva il torace del ragazzo mentre gli altri impugnavano solo i cellulari.

La madre del ragazzo urlava, invocando Dio, supplicando chiunque, ma solo il motociclista si mosse. Il sangue delle sue ferite grondava sulla maglietta bianca del giovane mentre contava le compressioni con una voce più roca della ghiaia.

I soccorsi sarebbero arrivati tra otto minuti. Le labbra del ragazzo erano blu. E allora, il centauro fece qualcosa che nessuno si aspettava, qualcosa che avrebbe perseguitato chiunque lo vide.

Cominciò a cantare.

Non istruzioni di primo soccorso. Non preghiere. Cantò “Volare” con un accento spezzato, continuando a comprimere quel torace giovane, le lacrime che si mescolavano alla sua barba grigia.

Il parcheggio si ammutolì, tranne per la sua voce e il ritmo delle compressioni. Trenta compressioni. Due respirazioni. Trenta compressioni. Due respirazioni. “*Nel blu dipinto di blu…*”

Il ragazzo era stato investito da un ubriaco mentre camminava verso lEsselunga. Il motociclista era stato il primo ad arrivare, scaraventando la sua Ducati per evitare la stessa macchina. Mentre gli altri chiamavano il 118 e mantenevano le distanze, lui si trascinò sullasfalto fino a raggiungere il giovane.

“Resta con me, figliolo,” ripeteva tra un verso e laltro. “Mio nipote ha la tua età. Resta con me, adesso.” Ma non ce la faceva…

Mi chiamo Beatrice Colombo, e fui una delle quarantasette persone che videro Antonio “Lo Zingaro” Ferrara salvare una vita quel giorno. Ma più di tutto, vidi il prezzo che pagò per quel miracolo, di cui nessuno parlava quando condividevano la storia online.

Lo avevo visto in paese per anni. Era difficile non notare un motociclista anziano con girasoli dipinti sul casco e una moto che ruggiva come un tuono. I negozianti si irrigidivano quando parcheggiava. Le madri tiravano vicini i figli. Il pregiudizio era automatico, irriflessivo. Barba grigia e giacca di pelle equivalevano a pericolo, nella mente di molti.

Quel martedì pomeriggio distrusse ogni supposizione.

Ero in macchina, controllando il telefono, quando sentii limpatto. Il metallo che si schiacciava contro la carne. Lo stridore dei freni. E poi, il rombo della Ducati che si spezzava quando Lo Zingaro la gettò a terra, le scintille che volavano mentre il cromo strisciava sullasfalto.

Il ragazzoMarco Bianchi, scoprii poiindossava la divisa dellEsselunga, probabilmente in ritardo per il turno. Il furgone dellubriaco lo aveva scagliato per sei metri. Cadde come un burattino rotto, le membra in angoli impossibili, il sangue che si allargava sotto la sua testa.

Tutti scesero dalle auto, formando un cerchio. I cellulari spuntarono allistante. Ma nessuno toccò il ragazzo. Nessuno sapeva cosa fare. Sua madre apparve dal nulla, lasciando cadere le buste della spesa, le mele che rotolavano nel parcheggio mentre si inginocchiava accanto a lui.

“Per favore!” gridava. “Qualcuno lo aiuti! Per favore!”

Allora, Lo Zingaro agì. Sanguinava per la sua caduta, il braccio sinistro penzolante, le ferite visibili sotto gli strappi della giacca. Ma si trascinò fino a Marco senza esitare, cercando un polso con dita tremanti.

“Niente battito,” annunciò, iniziando subito le compressioni. “Qualcuno conti. Il mio braccio è a pezzi.”

Nessuno si mosse per aiutare. Continuarono solo a filmare.

Così Lo Zingaro contò da solo, premendo con un braccio e determinazione, insufflando vita in quei polmoni immobili mentre il resto di noi rimanevamo inutili come statue.

“Uno, due, tre…” La sua voce era ferma nonostante il dolore. Professionale. Come se lavesse già fatto.

Poi seppi che era così. Antonio Ferrara era stato un medico da campo nella guerra in Libano. Salvò diciassette uomini in unimboscata, guadagnando una medaglia che non menzionò mai. Tornò a casa tra le proteste, trovando fratellanza in un club di motociclisti che capiva cosa il deserto gli aveva portato via.

Ma quel pomeriggio, vidi solo un vecchio centauro che si rifiutava di lasciar morire un ragazzo.

Dopo quattro minutiuneternità nella RCPLo Zingaro iniziò a vacillare. Il suo braccio buono cedeva. Il sudore si mescolava al sangue sul suo viso. Allora cominciò a cantare “Volare”, la canzone che sua nonna gli aveva insegnato, quella che canticchiava mentre salvava vite nelle sabbie del Libano cinquantanni prima.

“*Nel blu dipinto di blu…*”

Qualcosa in quella voce spezzata che cantava quella melodia svegliò la folla. Una donna in divisa medica si fece avanti, prendendo il posto quando le forze di Lo Zingaro vacillavano. Un muratore si inginocchiò accanto a lui, pronto a ruotare. La madre stringeva la mano del figlio, unendosi a una canzone che non conosceva.

“*Felice di stare lassù…*”

Tutto il parcheggio cantò. Quarantasette estranei uniti dalla disperata ninnananna di un motociclista. Anche i ragazzi che prima ridevano, anche luomo in giacca che si lamentava del rumore della moto, anche iola donna che stringeva la borsa quando lui passava.

Sei minuti. Sette. Lo Zingaro non smetteva di respirare per il ragazzo, anche se il suo stesso respiro si faceva affannoso. La donna in divisaGiovanna, uninfermiera fuori serviziomanteneva le compressioni con precisione meccanica.

Otto minuti. Lo sguardo di Lo Zingaro si annebbiò. Capii, con orrore crescente, che anche lui stava morendo. Le ferite interne della sua caduta lo raggiungevano. Ma continuava a insufflare aria a Marco, continuava a cantare tra un respiro e laltro.

Le sirene arrivarono finalmente. I paramedici presero il posto con braccia fresche e ossigeno puro. Tentarono di curare Lo Zingaro, ma lui li respinse.

“Prima il ragazzo,” ringhiò. “Io sto bene.”

Non stava bene. Chiunque poteva vederlo. Era pallido sotto labbronzatura, il respiro affannoso. Ma restò inginocchiato nel suo stesso sangue, osservando, ancora canticchiando quella maledetta canzone.

E poimiracolo dei miracoliMarco ansimò.

Debole, appena percettibile, ma reale. Lo caricarono sulla barella, la madre che saliva sullambulanza, ma non prima di toccare il volto di Lo Zingaro con mani tremanti.

“Grazie,” sussurrò. “Grazie.”

Lo Zingaro sorrise, e allora vidi il sangue allangolo della sua bocca. Emorragia interna. Grave.

“Signore, deve andare in ospedale subito,” disse un paramedico, correggendosi alla vista del suo aspetto.

“Un momento,” rispose Lo Zingaro, cercando di alzarsi. Fece tre passi prima che le

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