Tutti Resistono

Era un pomeriggio grigio quando Lia varcò la soglia della cucina, il suo sguardo si posò immediatamente sul disordine. “Oh, guarda chi si vede, il regno del caos! Celeste, stai sempre a casa. Potresti almeno lavare i piatti,” rimproverò la madre, poggiando la borsa della spesa sul tavolo.

Celeste stava tirando fuori le lenzuola dalla lavatrice. Il tessuto umido le pesava tra le braccia, freddo contro la pelle. Le dita le tremavano per la fatica, la schiena le doleva tanto che riusciva a stento a raddrizzarsi.

Dall’altra stanza si udì un singhiozzo. Edoardo. Si era svegliato di nuovo.

“Mamma, davvero pensi solo a questo?” chiese Celeste con gli occhi spenti. “Sai benissimo che i bambini sono malati.”

Lia lasciò cadere il sacchetto delle arance sul tavolo. Esaminò la cucina come un ispettore severo e sospirò, sconfortata.

“Non capisco come si possa vivere in questo porcile. Hai solo due figli, mica dieci. E un marito.”

Celeste non replicò. Appese la federa al termosifone e per un attimo rimase immobile, curva. Avrebbe voluto gridarle in faccia che due figli erano comunque una fatica enorme, ma non ne aveva più la forza.

Tutta la sua energia era stata consumata dai capricci di Edoardo, dalla febbre di Viola, dai pasti da cucinare, dai preparativi frenetici per l’asilo e dalle notti insonni. Un peso enorme, che la schiacciava. E, ciliegina sulla torta, c’era anche sua madre con le sue ossessioni per la pulizia.

Celeste si diresse verso il corridoio, cercando un attimo di respiro. Sbirciò nella camera da letto. Viola dormiva, i riccioli sudati incollati alla fronte. Edoardo era già seduto nel lettino, sfregandosi gli occhi con i pugnetti.

“Credevo fossi venuta per aiutarmi,” sibilò Celeste, tornando in cucina con il bambino in braccio. “I piatti possono aspettare, tienimi i bambini un po’.”

“Celi, i bambini sono tuoi. Io non sono più una ragazzina. Per me è più facile lavare i piatti che badare a loro.”

“Mamma! Puoi smetterla per un secondo con i tuoi maledetti piatti e la polvere? Ho una figlia con la febbre e l’altro che non mi lascia respirare! Sono tre notti che non dormo. Le tue arance, le prediche e lo straccio non mi servono a niente.”

Lia serrò le labbra. Le narici le si dilatavano per l’indignazione.

“Io aiuto come posso.”

“No, non aiuti. Fai solo pressione. Come sempre.”

Celeste adagiò Edoardo nel box, poi afferrò il sacchetto della frutta e lo porse alla madre.

“Riprenditi le tue arance e vai via. Per favore.”

Per un istante, persino Edoardo tacque. Lia la squadrò con disprezzo, poi guardò il sacchetto. Lo strappò via con un gesto secco, come se contenesse una bomba a orologeria, e se ne andò.

Quando finalmente il dolore nel petto si placò un po’, Celeste si sedette per terra accanto al box e abbracciò Edoardo. Lui starnutì sulla sua spalla. Lei sospirò: proprio quello che le mancava.

Una volta, avrebbe sopportato in silenzio le critiche della madre. Al massimo avrebbe digrignato i denti. Perché, dopotutto, era sua madre. E così doveva essere. Tante sue amiche avevano parenti così. Non solo madri. Nonne, suocere. Tutti tacciono e sopportano.

Celeste sperava che sua madre cambiasse, ma lei non cambiò mai.

Da bambina era sempre stato così. Un episodio in particolare non lo avrebbe mai dimenticato. In quinta elementare aveva vinto il terzo posto alle olimpiadi di italiano. Le avevano dato un attestato e una tavoletta di cioccolato come premio. Splendeva d’orgoglio quando l’aveva mostrato alla madre. Avrebbe voluto dirle che era anche merito suo, ma non fece in tempo.

“Hai messo altro fango sul giubbotto! Cammini per strada conciata così?” si era lamentata Lia. “Sei una ragazzina. Dovresti fare più attenzione.”

Se nei voti finali c’era anche solo un sette, sua madre montava su tutte le furie. Quando Celeste lavava il pavimento, Lia controllava minuziosamente dietro alle porte e sotto i termosifoni.

Lia non l’aveva mai lodata. Al massimo taceva, al pezzo trovava un modo per criticare. I complimenti sembravano razionati, e quei pochi non erano mai per Celeste.

Marco, suo marito, lo sapeva. Lui stesso aveva sentito Lia dire cose come:

“Ma perché ai vostri figli servono così tanti giocattoli? Ai miei tempi bastavano i cubetti di legno e i puzzle.”

Celeste cercava di non invitare sua madre a tavola. Ma quando capitava, si preparava già alle critiche.

“La carne è di nuovo asciutta. L’hai cotta troppo.”

Ma che sua madre le chiedesse come stava o come andavano le cose… Mai successo.

Quella sera, Celeste scrisse a Marco per sfogarsi. Lui sapeva che Viola era malata. Sapeva che la moglie era stremata. Conosceva i rapporti con la suocera. Ma non poteva aiutare: era fuori per lavoro. Almeno poteva ascoltarla.

“L’ho cacciata,” scrisse lei. “Tanto non aiutava, ma le nerva le logorava tutte.”

“Brava,” rispose lui subito. “Dovevi farlo da tempo.”

Celeste si sentì sollevata. Ecco la conferma che aveva fatto la cosa giusta. Per lei era importante sentirlo da qualcuno che vedeva sua madre dall’esterno.

Non riuscì a dormire. Si svegliò per un accesso di tosse. La stanza era ancora buia, solo la spia rossa della televisione brillava nell’ombra. Trovò il telefono sotto il cuscino. Le cinque e mezza. Non era nemmeno giorno.

Edoardo si agitava nel lettino. Accanto a lui, Viola si rigirava e sussultava.

Celeste si mise a sedere. La testa le pulsava come se qualcuno l’avesse martellata. La gola le bruciava, le gambe erano molli.

Raggiunse la cucina a fatica e aprì il frigo. Vuoto. Una bottiglia di latte andato a male, una confezione quasi finita di formaggio fuso, qualche uovo. Due fette di pane raffermo e una scatola di pasta da qualche parte.

Forse poteva arrangiarsi per la colazione, ma poi? I medicinali di Viola stavano finendo. E anche a lei serviva qualcosa. Ma come uscire con i bambini da sola? I servizi di consegna non erano affidabili, soprattutto per le medicine.

“Devo andare in farmacia. Ma non ho con chi lasciarli… Non so cosa fare,” scrisse a Marco.

“Proverò a parlare con Ginevra,” rispose lui dopo mezz’ora.

Celeste sogghignò. Ginevra era sempre attaccata al telefono e al portatile. Aveva un blog, le riprese, i corsi, il lavoro. Non aveva nemmeno il tempo per prendere un cane, anche se lo desiderava. E ora doveva cambiare i suoi piani per aiutare una cognata malata e i nipoti?

Non si fece molte illusioni, ma due ore dopo suonarono alla porta. Sulla soglia c’era Ginevra. Si sistemò i capelli arruffati, si aggiustò il colletto con nervosismo, ma era lì.

“Mi dai un bicchiere d’acqua? Sono rimasta in coda e mi si è seccata la gola. Intanto io mi lavo le mani e vadoE mentre la porta si chiudeva alle spalle di sua madre per l’ultima volta, Celeste capì che a volte l’amore, per essere vero, deve prima imparare a rispettare i confini.

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