Erika Rossi è seduta al massiccio tavolo di legno nella sua casa a Bologna, stringendo tra le mani una tazza di tè ormai freddo. Il suo sguardo è pesante, carico di stanchezza e determinazione. Davanti a lei c’è un foglio di carta: il testamento che ha riscritto già per la terza volta in un mese. I suoi figli, Matteo e Giulia, non mettono piede in quella casa da tempo, ma oggi li ha convocati per un consiglio di famiglia. Le parole che sta per pronunciarle bruciano dentro di lei: “O mi aiutate adesso, o non aspettatevi nulla dopo la mia morte.” Sa che questo ultimatum strapperà la sua famiglia, ma il silenzio non è più un’opzione.
Erika ha dedicato la sua vita ai figli. Dopo la morte del marito, ha tirato su Matteo e Giulia da sola, lavorando due turni per garantirgli vestiti caldi e libri di scuola. Era orgogliosa dei loro successi: Matteo è diventato ingegnere, Giulia medico. Hanno lasciato Bologna, costruendosi una vita a Milano, con famiglie e carriere. Erika si è rallegrata per loro, ma con gli anni la gioia si è trasformata in solitudine. La sua casa, un tempo piena di risate, ora è vuota. La sua salute peggiora: l’artrite le blocca le mani, il cuore fa le bizze, ma le telefonate dei figli si fanno sempre più rare. “Mamma, siamo occupati, il lavoro, i bambini,” dicono, e lei ingoia il dispiacere, sperando che si ricordino di lei.
Tutto cambia quando scivola sul ghiaccio davanti a casa, in inverno. Una vicina chiama l’ambulanza, e Erika passa una settimana in ospedale con una frattura al femore. Matteo e Giulia vengono, ma la visita è breve: due giorni, frasi di circostanza, poi spariscono di nuovo. Erika resta sola, a lottare con il dolore e le difficoltà quotidiane. Non riesce a portare la spesa, a spalare la neve, nemmeno ad aprire un barattolo di marmellata. Chiama i figli, chiede aiuto, ma sente solo: “Mamma, assumi qualcuno, non abbiamo tempo.” Quelle parole la feriscono più del male fisico. Non vuole estranei—vuole la sua famiglia.
L’ultimatum nasce in una notte insonne. Erika guarda le vecchie foto in cui Matteo e Giulia, ancora bambini, l’abbracciano durante una gita, e piange. Non vuole morire sola, circondata dall’indifferenza. La sua casa, i risparmi, tutto ciò che ha accumulato negli anni, dovrebbe andare a loro. Ma perché? Per le rare chiamate e le promesse mai mantenute? Decide: se vogliono l’eredità, devono dimostrare che lei non è un peso. Chiama un notaio e aggiunge una clausola al testamento: erediteranno solo chi la aiuterà in vita.
Quando Matteo e Giulia arrivano, Erika li accoglie con freddezza. Non usa giri di parole. “Sono stanca di sentirvi dire che vi complico la vita,” inizia, e la sua voce trema per le lacrime trattenute. “Se non mi aiutate ora—venendo, occupandovi di me, stando vicini—cambierò il testamento. Tutto andrà a un’associazione per anziani.” Il silenzio riempie la stanza. Matteo aggrotta la fronte, Giulia abbassa lo sguardo. Si aspettavano un discorso sulla salute, non questo colpo. “Mamma, questo è ricatto,” dice infine Matteo, e le sue parole tagliano Erika come un coltello. “No, è giustizia,” risponde, sentendo il cuore batterle forte.
Giulia cerca di ammorbidire la situazione: “Mamma, ti vogliamo bene, ma abbiamo le nostre famiglie, non possiamo mollare tutto.” Erika la fissa e negli occhi della figlia vede non affetto, ma fastidio. “Non vi chiedo di abbandonare la vostra vita. Vi chiedo di essere miei figli,” dice, voltandosi per nascondere le lacrime. Matteo e Giulia partono quella sera stessa, promettendo di “pensarci.” Ma Erika sa: non torneranno. Le loro chiamate diventano ancora più rare, e nei toni si insinua il gelo. Parlano di lei alle spalle, la chiamano egoista, ma lei resta ferma. La sua casa non è più aperta per chi cerca solo un vantaggio.
Passa un anno. Erika impara a cavarsela con l’aiuto dei vicini e dei servizi sociali. Vende un pezzo di terreno per pagare una badante e inizia a frequentare un circolo per anziani, dove trova amici. Il cuore le duole ancora per i figli, ma non si sente più una vittima. Riscrive il testamento a favore di un’organizzazione che assiste i veterani. Matteo e Giulia lo scoprono dal notaio e smettono persino di chiamare. Erika piange, ma in fondo si sente sollevata. Si è liberata dall’illusione che il loro affetto si possa comprare.
Ora, osservando il tramonto dal suo giardino, Erika non pensa all’eredità, ma a ciò che può ancora donare al mondo. Aiuta i bambini del quartiere con i compiti, fa maglioni per un rifugio. La sua vita, che un tempo le sembrava vuota, ha ripreso significato. Ma ogni sera, prima di dormire, sussurra: “Perdonatemi, se non sono stata la madre che vi serviva.” Sa di aver fatto la cosa giusta, ma il dolore della rottura con i figli resterà per sempre.