Una bufera di neve avvolge il tranquillo borgo di San Giovanni in Marignano, come un candido lenzuolo che inghiotte ogni suono.
Sui vetri delle finestre si allargano disegni di ghiaccio, simili a merletti ricamati, mentre il vento sibila per le strade deserte, portando con sé il sussurro di ricordi dimenticati.
La temperatura è scesa a meno otto gradi: l’inverno più rigido degli ultimi quindici anni in questo angolo della Romagna.
Nella penombra di una piccola trattoria di paese, “Al Vecchio Mulino”, nascosta ai margini del borgo, un uomo è in piedi dietro un bancone di legno consumato, asciugando lentamente tavoli già puliti. L’ultimo cliente se n’è andato quattro ore fa.
Le sue mani, segnate da profonde rughe, tradiscono anni di duro lavoro: la vita di un cuoco che ha sbucciato quintali di patate e tagliato chili di carne.
Il suo grembiule blu, sbiadito dai lavaggi, è macchiato dai resti di migliaia di piatti cucinati con amore: minestrone cotto per ore secondo la ricetta della nonna, polpette di carne macinata fatta in casa, pasta e fagioli con olive vere.
All’improvviso, un lieve tintinnio: il suono sommesso del vecchio campanello di ottone appeso alla porta da trent’anni.
Ed eccoli apparire: due bambini, tremanti, fradici, affamati e spaventati. Un ragazzino di undici anni con una giacca troppo grande e strappata. Una bambina, non più di sei, con un cardigan rosa troppo leggero per l’inverno.
Le loro mani lasciano impronte sul vetro appannato, come fantasmi della povertà. Quel momento segna un punto di svolta.
Non avrebbe mai immaginato che un semplice gesto di gentilezza in quella gelida serata del 2002 avrebbe riecheggiato, vent’anni dopo.
La storia di Nicola Bianchi
Nicola Bianchi non aveva mai pensato di rimanere a San Giovanni in Marignano per più di un anno.
Aveva ventotto anni e sognava di diventare chef in uno dei ristoranti più prestigiosi di Milano, o magari di aprirne uno suo, magari in Brera o a Navigli.
Immaginava un luogo con musica dal vivo, camerieri poliglotti e un menu con piatti da tutto il mondo. Aveva persino scelto un nome: “Il Cucchiaio d’Oro”.
Ma il destino, come spesso accade, aveva altri piani. Dopo la morte improvvisa della madre, Nicola lasciò il lavoro di aiuto cuoco al ristorante “La Scala” di Milano e tornò nel suo paese natale.
Doveva occuparsi della nipote di quattro anni, Mariolina, una bambina fragile con riccioli biondi e occhi azzurri, rimasta orfana dopo l’arresto della madre.
I debiti crescevano come una valanga: bollette, mutuo per un’operazione, alimenti richiesti dal padre della bambina. I sogni si allontanavano ogni giorno di più.
Così Nicola iniziò a lavorare nella modesta trattoria “Al Vecchio Mulino” come cameriere e cuoco.
La proprietaria, la gentile signora Valeria, con un cuore grande ma un portafoglio vuoto, gli pagava appena ottocento euro al mese, una miseria per quei tempi.
Il lavoro non era prestigioso, ma onesto. Nicola si alzava alle cinque del mattino per preparare le focacce prima dell’apertura. Le sue focacce ripiene di prosciutto andavano a ruba, e i clienti apprezzavano il gioco di parole.
In un paese dove la gente passava come foglie al vento, Nicola divenne un punto di riferimento.
Ricordava che la signora Anna preferiva il caffè senza zucchero, che l’autotrasportatore Marco ordinava sempre una doppia porzione di pasta al ragù, e che il maestro Luigi prendeva un caffè corretto dopo la terza ora di lezione.
Fu in uno degli inverni più rigidi, quello che i meteorologi chiamarono “l’inverno del secolo”, che li vide.
Era sabato, 8 dicembre, festa dell’Immacolata. Molti locali avevano chiuso in anticipo, ma Nicola era rimasto, sapendo che qualcuno avrebbe potuto aver bisogno di un pasto caldo e di un rifugio.
Alla porta della trattoria, stretti l’uno all’altro, c’erano due bambini.
Il ragazzino con la giacca strappata, evidentemente troppo grande per lui. La bambina con il cardigan leggero, che tremava come una foglia. I loro stivali di gomma bucati erano zuppi. Nei loro occhi c’era la paura che solo la fame e la solitudine insegnano.
Qualcosa trafisse il cuore di Nicola. Non solo pietà: riconoscimento. Anche lui era stato un bambino così.
A dieci anni, suo padre era scomparso, lasciando la famiglia senza un soldo. Sua madre lavorava in tre posti: come pulizia, commessa e babysitter.
La fame era diventata una compagna costante. Nicola ricordava quella sensazione terribile, come se una bestia gli rosicasse lo stomaco.
Senza pensarci, aprì la porta, lasciando entrare una folata di vento gelido.
“Entrate, piccoli, presto!” li chiamò, invitandoli dentro. “Qui c’è caldo. Non abbiate paura.”
Li fece sedere al tavolo vicino al termosifone, il posto più caldo, e mise davanti a loro due scodelle di minestrone fumante, preparato con la ricetta della nonna. La zuppa vaporava, appannando ancora di più i vetri.
“Mangiate, non fate complimenti,” disse gentilmente, mettendo accanto del pane croccante e un po’ di formaggio grattugiato. “Qui siete al sicuro. Nessuno vi farà del male.”
Il ragazzino, inizialmente guardingo come un animale selvatico, prese con cautela il cucchiaio. Dopo il primo assaggio, spalancò gli occhi, sorpreso che il cibo potesse essere così buono. Spezzò un pezzo di pane e lo passò alla sorella.
“Tieni, Caterina,” sussurrò. “È davvero buono.”
Le sue piccole mani tremavano mentre prendeva il cucchiaio. Nicola notò che si era morsicata le unghie fino al sangue, un segno di stress infantile.
Si allontanò verso il lavello, fingendo di lavare i piatti, ma i suoi occhi si erano inumiditi.
Nell’ora seguente, i bambini mangiarono con una tale voracità che parlava più di qualsiasi parola: da quanti giorni non avevano visto un pasto caldo.
Nicola andò in cucina e preparò per loro un pacchetto con quattro panini al prosciutto, due mele, un pacchetto di biscotti e un thermos di tè caldo e zuccherato.
Poi, controllando che i bambini non lo vedessero, infilò nella borsa due banconote da cento euro, gli ultimi soldi che aveva messo da parte per le scarpe nuove di Mariolina.
“Ragazzi,” disse, sedendosi accanto a loro. “Vi ho preparato qualcosa da mangiare. E ricordate: se avrete di nuovo bisogno di aiuto, venite qui. Di giorno, di notte, non importa. Sono quasi sempre qui.”
Il ragazzino lo guardò negli occhi, grigi come il cielo invernale, ma con una scintilla di speranza.
“Voi… davvero non ci denuncerete?” chiese con voce tremante. “Siamo scappati dall’orfanotrofio. Lì… ci picchiavano. Caterina veniva presa in giro dalle ragazze più grandi.”
“Non chiamerò nessuno,” rispose fermo Nicola. “Rimarrà tra noi. Solo ditemi come vi chiamate, così saprò come rivolgermi a voi se tornerete.”
“Lorenzo,” rispose piano il ragazzino. “E questa è mia sorella Caterina. Siamo