Un terribile errore
Silvia si svegliò di colpo, trafitta dal dolore. Qualcosa le aveva sussurrato nel sonno, qualcosa di importante. Ma il male l’aveva distratta, cancellando ogni memoria del sogno. Mai aveva sentito una fitta così forte, nemmeno quando il mal di schiena le tormentava la vita.
Rimase immobile, ascoltando il proprio corpo. Il dolore sembrava attenuarsi. Con cautela, si mise a sedere sul letto, ma appena tentò di alzarsi, una nuova ondata la travolse. Un grido le sfuggì mentre scivolava a terra. A carponi raggiunse il comodino dove aveva lasciato il telefono in carica.
Chiamò il 118 in ginocchio, con una mano appoggiata al pavimento per reggersi. “Devo calmarmi, l’ambulanza arriverà presto,” si ripeteva. “Ma la porta? Devo aprirla!” Si trascinò fino all’ingresso. Il dolore pulsava, il ventre le bruciava come una fornace.
Cercò di raddrizzarsi per sbloccare la serratura, ma una coltellata la inchiodò di nuovo. Le lacrime le velarono lo sguardo. Ecco cosa significava essere soli. Non era l’assenza di qualcuno che ti porge un bicchiere d’acqua, ma di chi possa spalancare la porta alla salvezza. Si morse il labbro fino a far sangue e ci riprovò. Riuscì ad aprire, poi svenne.
Nebbia. Frammenti di frasi che le giungevano confuse. Domande a cui rispondeva, o forse le sembrava soltanto.
Riaprì gli occhi in una stanza d’ospedale, accecata dal sole basso d’autunno. Si scostò dai raggi, torcendosi per la fitta sotto lo sterno. Il ventre le sembrava gonfio, ma il dolore era quasi sparito.
Solo qualche giorno prima, mentre cercava di lasciare Enrico per l’ennesima volta, aveva pensato che morire fosse meglio di vivere così. Senza marito, senza figli. Nessuno. A che pro vivere? Eppure, quella notte, si era aggrappata alla vita con tutte le forze. Capendo quanto fosse terribile morire così, all’improvviso, nell’isolamento.
“Sei sveglia? Chiamo l’infermiera.”
Silvia voltò la testa verso la voce. Nell’altro letto c’era una donna formosa, indefinibile d’età, avvolta in una vestaglia di flanella a fiori gialli su sfondo azzurro.
Poco dopo entrò un’infermiera.
“Come ti senti?” Le chiese, giovane e rosea in viso, o forse era l’effetto del cuffietto rosa che indossava?
“Bene,” rispose Silvia. “Cos’ho avuto?”
“Il dottore verrà a spiegartelo,” disse l’infermiera, allontanandosi.
Silvia notò la lunga treccia bionda che le scendeva fino ai fianchi. “Esistono ancora ragazze che portano le trecce?” pensò.
“Sei in ginecologia. Ti hanno portata qui due ore fa. Hai dormito tanto, ragazza mia,” commentò la compagna di stanza.
“Ragazza mia.” Ultimamente la chiamavano sempre più spesso “signora” o “cittadina” al supermercato e sull’autobus. Si sentiva vecchia. Eppure, quarantadue anni non erano poi tanti. Forse per questo, quando qualcuno le proponeva un incontro con un nuovo pretendente, scuoteva la testa: “È troppo tardi, non mi serve nessuno.” Per questo cercava di lasciare Enrico, ma lui tornava sempre.
“Come ti senti?” Un dottore sulla cinquantina entrò nella stanza.
“Dottore, cos’è successo? Mi hanno operata? Sembro un palloncino.”
“Signora Marconi, l’aspettano in sala medicazioni,” disse il dottore alla vicina.
La donna si alzò, si sistemò la vestaglia e uscì a malincuore.
Silvia incrociò lo sguardo stanco del medico con gratitudine.
“Le abbiamo praticato una laparotomia. Aveva una gravidanza extrauterina, la tuba si è rotta.”
“Come?” Silvia quasi balzò dal letto, ma una fitta la bloccò.
“Cosa la sorprende?” chiese il dottore.
“Avevano diagnosticato sterilità.”
“Questo non esclude una gravidanza extrauterina, né una naturale. La vita è piena di sorprese, creda a me. Resterà qui qualche giorno.”
“Posso alzarmi?”
“Deve. Ma senza esagerare,” rispose il dottore prima di uscire.
Silvia rimuginò l’informazione. Le avevano detto che non poteva avere figli. Suo marito l’aveva lasciata per quello. O forse era solo una scusa per giustificare i tradimenti. “Posso ancora rimanere incinta? Ma cosa sto dicendo? Ho quarantadue anni, è troppo tardi… Perché non ho chiesto subito al dottore?”
Si sedette sul letto e infilò i piedi nelle pantofole. Sul letto c’era la sua vestaglia. Dovevano avergliela portata i paramedici. Nessun dolore, solo indolenzimento muscolare.
Indossò la vestaglia e si alzò. Un lieve capogiro. “L’anestesia,” pensò. Sentì un peso nella tasca. “Le chiavi di casa. Il portafoglio. Hanno chiuso la porta,” realizzò.
Non c’era lo specchio sopra il lavandino. Si sistemò i capelli a mano e uscì nel corridoio. Raggiunse una porta con la targa “Medici”, ma era chiusa, con la chiave nella serratura. Proseguì verso il banco delle infermiere per chiedere quando sarebbe tornato il dottore e come si chiamasse.
Le girava la testa, la nausea saliva. Si sedette su una panchina nell’atrio, senza raggiungere il banco.
“Enrico sarebbe contento se sapesse che potevo rimanere incinta?” Si erano conosciuti cinque anni prima. Lui aveva subito confessato di essere sposato, con una figlia piccola.
La loro storia era stata travolgente. Silvia non chiedeva nulla. Aveva provato a lasciarlo molte volte. Lui si offendeva, spariva, ma poi ritornava. All’inizio prometteva di lasciare la moglie quando la bambina fosse cresciuta un po’ e la moglie avesse ripreso a lavorare. Ma la figlia era iniziata la scuola, e lui era ancora lì. Silvia non gli chiedeva più nulla. Ogni volta diceva “Basta”, ma poi lo lasciava entrare.
Le voci la distolsero dai pensieri. Non vedeva il banco delle infermiere, né aveva prestato attenzione, finché non sentì il suo cognome.
“Immagina, durante l’intervento, il dottor Sartori ha trovato un tumore. Enorme.”
Silvia riconobbe la voce dell’infermiera con la treccia.
“E allora?” chiese un’altra voce giovane.
“Niente. L’hanno richiusa e basta. Sartori ha detto che è all’ultimo stadio. Domani la portano in oncologia. Non è nemmeno vecchia, ma ha pochi mesi.”
“Che tristezza,” commentò l’altra.
Silvia non sentì altro. Nella testa le rimbombavano le parole: tumore, ultimo stadio. Un’ondata di calore, la nausea tornò. “Sono io la Marconi, parlano di me. Ho il cancro? Domani mi portano in oncologia? Perché il dottore non me l’ha detto?”
Era paralizzata. Si staccò a fatica dalla panchina, si aggrappò al muro e tornò in stanza, crollando sul letto. Piangeva disperata.
La compagna rientrò. Silvia le voltò le spalle.
“Piangi? Vuoi che chiamo qual”Non tornerò più in ospedale,” decise Silvia, asciugandosi le lacrime e prendendo il cellulare per cancellare definitivamente il numero di Enrico, mentre il sole del mattino entrava dalla finestra, illuminando una nuova vita che finalmente sarebbe stata solo sua.