Un Errore Terribile

Una Terribile Errore

Ginevra si svegliò per il dolore. Qualcosa le aveva sfiorato la mente prima del risveglio, qualcosa di importante. Ma il male insistente la distrasse, e subito il sogno svanì. Mai aveva sentito una fitta così acuta alla pancia, tanto da irradiarsi persino alla schiena.

Stesa nel letto, ascoltava il dolore mentre lentamente si placava. Con cautela si mise seduta, ma al primo tentativo di alzarsi, la fitta tornò a trafiggerla. Emise un grido e scivolò a terra, trascinandosi sulle ginocchia verso il comò, dove aveva lasciato il telefono in carica.

Chiamò il 118 proprio così, in ginocchio, con una mano appoggiata a terra. “Devo calmarmi, l’ambulanza arriverà,” si ripeteva. “Ma la porta? Devo aprirla!” Si trascinò verso l’ingresso, il dolore pulsante che le bruciava le viscere.

Cercò di raddrizzarsi per sganciare la serratura, ma la lama del dolore tornò a colpirla. Le lacrime le annebbiarono la vista. Ecco cosa temeva della solitudine: non tanto il non avere nessuno che le porgesse un bicchiere d’acqua, ma il non avere nessuno ad aprire la porta quando il soccorso bussava. Si morse il labbro fino a farlo sanguinare e fece un ultimo sforzo. Riuscì ad aprire, poi perse i sensi.

Attraverso una nebbia, frammenti di frasi le arrivavano come lampi. Qualcuno le chiedeva qualcosa. Forse aveva risposto, o le era solo parso.

Si ritrovò in una stanza d’ospedale, il sole basso d’autunno che accecava dalla finestra. Si scostò dai raggi, ma una fitta sotto il petto la fece contorcere. La pancia le sembrava gonfia, quasi indolenzita.

Poco prima, quando aveva tentato di lasciare per l’ennesima volta Vittorio, aveva pensato che sarebbe stato meglio morire che vivere così. Senza marito, senza figli. Nessuno. Perché vivere? Eppure, quella notte, aveva tremato per la paura, aggrappandosi alla vita. Aveva capito quanto fosse terribile morire così, all’improvviso, da soli.

“Sei sveglia? Ora chiamo l’infermiera.”

Ginevra voltò la testa verso la voce e vide un’altra paziente, una donna formosa in un accappatoio di flanella con fiori gialli su fondo celeste.

Poco dopo entrò l’infermiera.

“Come ti senti?” chiese, giovane e rubiconda, forse per via del berretto rosa da infermiera che portava.

“Bene,” rispose Ginevra. “Cos’ho avuto?”

“Ora arriva il dottore e ti spiegherà tutto,” disse la ragazza, voltandosi per uscire.

Ginevra intravide una lunga treccia bionda fino alla vita. Portavano ancora le trecce, le ragazze?

“Sei in ginecologia. Ti hanno portata qui due ore fa. Dormivi come un ghiro,” disse la vicina di letto.

“Dormivo.” Ultimamente la chiamavano “signora” o “cittadina” al supermercato e sull’autobus. Si sentiva vecchia. Eppure, quarantadue anni non erano mica tanti. Forse per questo, quando qualcuno cercava di presentarle un pretendente, scuoteva la testa dicendo che ormai era troppo tardi, che non le serviva nessuno. Per questo aveva provato a lasciare Vittorio, ma lui tornava sempre.

“Come ti senti?” chiese il dottore, un uomo sulla cinquantina entrato in reparto.

“Dottore, cosa è successo? Mi hanno fatto l’anestesia? Un’operazione? Mi sento come se avessi ingoiato un pallone.”

“Esposito, ti aspettano in sala medicazioni,” disse il medico all’altra paziente.

La donna si alzò, si sistemò l’accappatoio e uscì a malincuore.

Ginevra gli sorrise, riconoscente per quegli occhi stanchi.

“Le abbiamo fatto una laparotomia. Aveva una gravidanza extrauterina. La tuba è scoppiata.”

“Come?” Ginevra quasi balzò dal letto, ma il dolore la bloccò.

“Perché la sorprende?”

“Mi avevano detto… che non potevo avere figli.”

“Questo non esclude la possibilità di una gravidanza extrauterina, né di una normale. La vita è piena di sorprese, creda a me. Rimarrà qui qualche giorno.”

“Posso alzarmi?”

“Anzi, deve. Ma con moderazione,” rispose, uscendo.

Ginevra rielaborò l’informazione. Le avevano detto che era sterile. Il marito l’aveva lasciata per quello. O forse era solo una scusa per le sue scappatelle. “Posso davvero rimanere incinta? Ma cosa sto dicendo? Ho quarantadue anni, è troppo tardi per pensare ai figli,” si rimproverò. “Perché non ho chiesto al dottore?”

Scese dal letto. Le sue pantofole erano a terra, il suo accappatoio appeso alla spalliera. Probabilmente i paramedici li avevano portati. Niente dolore, solo indolenzimento muscolare.

Indossò l’accappatoio, infilò le pantofole e si alzò. Un velo di vertigine. “Effetto dell’anestesia,” pensò. Nella tasca sentì un peso. “Le chiavi di casa. Il documento. Significa che hanno chiuso la porta.”

Nessuno specchio sopra il lavandino. Si lisciò i capelli a mano ed uscì in corridoio. Raggiunse una porta con la targa “Medici”, ma era chiusa, con la chiave ancora nella serratura. Proseguì verso l’infermeria per chiedere del dottore e il suo nome.

Le vertigini tornarono, una nausea salì alla gola. Si sedette su una panchina prima di arrivare.

“Vittorio si sarebbe rallegrato, sapendo che potevo rimanere incinta?” Si erano incontrati cinque anni prima. Lui aveva subito detto di essere sposato, felicemente, con un figlio piccolo.

La loro storia era stata intensa. Ginevra non sperava in nulla. Aveva cercato di chiudere più volte. Lui si offendeva, spariva, ma poi tornava. Prima prometteva di lasciare la moglie, poi rimandava. Non chiedeva più nulla. Ogni volta diceva “basta”, ma poi riaprivano la porta.

Voci la interruppero. Non badò ai discorsi, finché non sentì il suo cognome.

“Figurati, durante l’operazione il dottor Santoro ha trovato un tumore. Enorme.”

Riconobbe la voce dell’infermiera con la treccia.

“E allora?” chiese un’altra voce giovane.

“Niente. L’hanno ricucita e basta. Santoro ha detto che è l’ultimo stadio. Domani la mandano in oncologia. Non è nemmeno vecchia, ma ha pochi mesi.”

“Che peccato.”

Ginevra non ascoltò più. Un rimbombo nella testa, il cuore che batteva a martello. “Sono io. Ho il cancro. Domani mi portano via. Perché il dottore non me l’ha detto?”

Tremava tutta. Si staccò a fatica dalla panchina, tornò in camera e scoppiò in lacrime.

La vicina rientrò. Ginevra voltò il viso verso la finestra.

“Piangi? Vuoi che chiamo qualcuno?”

“No.” Si alzò e uscì.

Scese al piano terra. Una giornata tiepida, soleggiata. Uscì. I malati passeggiavano nel giardino dell’ospedale. Nessuno la notò.

Poi si voltò, prese la mano di Vittorio, e capì che anche quel dolore, come tutto il resto, forse poteva ancora guarire.

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