**Diario personale di Emilia**
Credevo fosse solo un povero mendicante invalido… Ogni giorno gli offrivo quel poco che avevo, ma una mattina tutto cambiò.
Questa è la storia di una ragazza di nome Ginevra e di un mendicante di cui tutti ridevano. Ginevra aveva solo ventiquattro anni. Vendeva cibo in una piccola bancarella di legno lungo la strada, a Napoli. La sua postazione era fatta di assi sgangherate e lamiere arrugginite, sotto un grande albero dove la gente si fermava a mangiare.
Ginevra non aveva molto. Le sue scarpe erano consumate, il vestito rattoppato, ma sorrideva sempre. Anche quando era stanca, accoglieva ogni cliente con gentilezza. «Buonasera, signore. Figurarsi», diceva, mentre serviva piatti fumanti.
Si alzava all’alba per cucinare riso, pasta e fagioli e polenta. Le sue mani lavoravano veloci, ma il cuore batteva lento, pesante per la solitudine. Non aveva famiglia. I suoi genitori erano morti quando era piccola. Viveva in una stanzetta vicino alla bancarella, senza luce né acqua corrente.
Solo lei e i suoi sogni.
Un pomeriggio, mentre puliva il banco, passò la sua amica Zia Rosa. «Perché sorridi sempre, anche quando la vita è dura come per tutti noi?» le chiese. Ginevra rispose: «Perché piangere non riempie la pentola».
Zia Rosa rise e se ne andò, ma quelle parole rimasero incise nel cuore di Ginevra. Era vero: non aveva nulla. Eppure, dava da mangiare anche a chi non poteva pagare. Non sapeva che la sua vita stava per cambiare.
Ogni sera, accadeva qualcosa di strano. Un mendicante invalido appariva all’angolo della strada. Si spingeva con fatica sulla sua sedia a rotelle cigolante. La gente rideva o si tappava il naso. «Guarda quel poveraccio», dicevano.
Le gambe erano avvolte in bende sporche, i pantaloni strappati. Il viso era coperto di polvere, gli occhi stanchi. Alcuni dicevano che puzzava, altri che fosse pazzo. Ma Ginevra non distolse lo sguardo. Lo chiamava Nonno Marco.
Quel giorno, sotto il sole cocente, Nonno Marco si fermò davanti alla sua bancarella. Ginevra lo guardò e sussurrò: «Eccoti di nuovo. Ieri non sei venuto».
Lui abbassò lo sguardo. «Non avevo forze», disse con voce fioca. «Non mangio da due giorni».
Ginevra osservò il tavolo. Restava solo un piatto di pasta e fagioli. Quello che avrebbe mangiato lei. Senza dire nulla, lo prese e glielo mise davanti.
«Mangia».
Nonno Marco fissò il cibo, poi lei. «Mi dai il tuo ultimo piatto? Di nuovo?»
Lei annuì. «Cucinerò di più quando torno a casa».
Le sue mani tremavano mentre prendeva il cucchiaio. Gli occhi lucidi, ma non pianse. Si chinò e iniziò a mangiare lentamente.
Passanti li fissavano. «Ginevra, perché dai sempre da mangiare a quel mendicante?» chiese una donna.
Lei sorrise. «Se fossi io su quella sedia, non vorrei che qualcuno mi aiutasse?»
Nonno Marco veniva ogni giorno, ma non chiedeva mai nulla. Non chiamava, non tendeva la mano. Si sedeva in silenzio, la testa china, mentre la sua sedia cigolava, pronta a rompersi.
Mentre tutti lo ignoravano, Ginevra gli portava sempre un piatto caldo. A volte riso, altre pasta e fagioli. Con un sorriso.
Un pomeriggio, mentre serviva due scolari, lo vide arrivare. Le gambe ancora bendate, la camicia piena di buchi. Ma lui, come sempre, attese in silenzio.
Lei gli portò un piatto di riso al pomodoro con due pezzetti di carne. «Nonno Marco», disse dolcemente. «Il tuo cibo è pronto».
Lui alzò lo sguardo. Gli occhi stanchi si ammorbidirono. «Tu non mi dimentichi mai».
Ginevra si inginocchiò e posò il piatto accanto a lui. «Anche se il mondo ti dimenticasse, io no».
In quel momento, una macchina nera e lustra si fermò davanti alla bancarella. Ne scese un uomo in camicia bianca impeccabile e pantaloni scuri. Le scarpe lucide come specchi.
Ginevra si pulì le mani sul grembiule. «Buonasera, signore».
Lui non la guardò. Fissava Nonno Marco. Per un lungo momento, nessuno parlò. Poi l’uomo ordinò un piatto di riso e se ne andò, ma continuava a voltarsi, quasi perplesso.
Il giorno dopo, Nonno Marco non arrivò. Ginevra scrutò la strada, chiese a Zia Rosa, ai venditori. Nessuno lo aveva visto.
«Forse se n’è andato», le dissero.
Il cuore le si strinse. Per quattro giorni, attese invano. Non sorrideva più, non mangiava. Di notte, nella sua stanzetta, teneva stretto l’ultimo piatto che gli aveva preparato.
«Non salta mai un giorno», sussurrava. «Neanche quando piove. Neanche se sta male. Perché ora?»
Sentiva che qualcosa era andato storto.
Al quarto giorno, un’auto nera si fermò di nuovo. Un uomo in completo le consegnò una busta di carta. «Leggila. E non dirlo a nessuno».
Dentro c’era un foglio con poche parole:
*«Vieni all’Hotel Belvedere alle 16. Da un’amica.»*
Le mani le tremavano. Non era mai entrata in un hotel. Ma alle 15:30 chiuse la bancarella e prese un autobus.
Davanti all’Hotel Belvedere, due guardie la scrutarono. «Ho ricevuto questo», disse, mostrando il foglietto.
Un uomo in nero la condusse attraverso un corridoio fino a una porta. «Qualcuno ti aspetta».
Il cuore le batteva forte. Spinse la porta e rimase senza fiato.
Nonno Marco era seduto su una sedia a rotelle al centro della stanza. Ma non era più il mendicante che conosceva. I capelli curati, la camicia bianca con bottoni dorati, un orologio luccicante.
«Ginevra», disse dolcemente. «Entra».
Lei non riusciva a muoversi. «Sei davvero tu?»
Lui annuì. «Non mi chiamo Nonno Marco. Sono il Commendatore Giorgio. Un imprenditore miliardario».
Ginevra lo fissò, sconcertata. «Ma… perché fingevi?»
«Volevo vedere il cuore della gente», rispose. «Mi hai nutrito senza chiedere nulla. Per questo sei qui».
Poi si alzò dalla sedia.
Ginevra sobbalzò. «Cammini?»
«Sì. Volevo sapere chi mi avrebbe aiutato anche se credevano che non avessi nulla».
Le lacrime le rigavano il viso. «Non lo sapevo che eri ricco. L’ho fatto solo perché era giusto».
Lui sorrise. «Ed è per questo che ti ho scelta».
La portò fuori. Un corteo di auto lucenti le aspettava.
Dopo mezz’ora, arrivarono davanti a un edificio maestoso: un ristorante di lusso. Sull’insegna c’era scritto *«La Tavola di Ginevra»*.
«È tuo», disse il Commendatore.
Lei aprì la porta. Pavimenti di marmo, luci soffuse, cucine professionali. Cadde in ginocchio, le lacrime libere.
«Non so come ringraziarti».
«Non devi f**Diario personale di Ginevra**
Da quel giorno, “La Tavola di Ginevra” divenne un rifugio per chi aveva fame, perché lei non dimenticò mai che la gentilezza, anche la più piccola, può cambiare il destino.