Un mondo dove non è più spaventoso restare soli

L’alba si presentò avvolta in un silenzio tombale. Il condominio respirava aria stagnante, un miscuglio di cibo per gatti, plastica vecchia e qualcosa di dolciastro, vagamente simile a bucce di mandarino marce o a profumo scadente. Elisabetta “Betta” Rinaldi appoggiò la fronte al freddo telaio della porta e si irrigidì, ascoltando il balcone dell’appartamento accanto sbattere di nuovo. Era la terza volta in una settimana. Non era il vento: quel suono nervoso sembrava un grido, l’eco di una lontana litigata, come se il muro tra le loro vite si fosse assottigliato troppo.

Betta si strofinò il naso. Non per il freddo, ma per l’esaustione cronica. Infilò le scarpe da ginnastica grigie, consumate sui talloni – la sua “armatura quotidiana”. Con quelle, era quasi invisibile, ma almeno compatta. Intera. Anche se dentro, ormai, tutto si era sfilacciato.

Il vicino del quarto piano, quello con i baffi color polvere di mattoni e la tuta blu, le passò accanto come un’ombra. Una volta l’aveva fermata in ascensore con un: «Devi annoiarti, da sola, eh?» E da allora, quella voce le squarciava la pelle come un chiodo arrugginito conficcato sotto l’unghia.

L’autobus arrivò in ritardo, come sempre. Dentro odorava di giacche bagnate, birra e una disperazione acida. Betta si aggrappò alla maniglia fino a sbiancarle le nocche, fissando il vetro appannato. Il riflesso mostrava un viso pallido, un livido sotto l’occhio, un cappotto grigio che le scivolava da una spalla. Come se nulla in lei fosse al posto giusto. Sua madre avrebbe detto: «Sembri un fantasma». Ma sua madre non sapeva come fosse vivere quando i giorni non finiscono, ma si fondono in una massa grigia e viscosa, senza inizio né fine.

In ufficio era deserto. Quasi tutti lavoravano da casa. Restavano solo persone come lei, per cui casa era peggio di quel corridoio morto. Lì, almeno, non c’erano rimproveri, piatti lanciati contro il muro, sguardi che trafiggevano. Lì era sicuro. Freddo. Vuoto. Ma sicuro.

A mezzogiorno uscì nel cortile del business center. Non fumava. Stava solo in piedi. La guardia le passò accanto, fingendo di non vederla – come sempre. Nella tasca, il telefono vibrò. Sua madre.

«Mamma, sono al lavoro.»

«Sei di nuovo sola. Perché non esci? Fai due passi, almeno.»

«Ho da fare.»

«Elisabetta, questa non è una vita. Sopravvivi e basta. A trentadue anni…»

«Ciao, mamma.»

Riattaccò. Senza rabbia. Semplicemente non aveva più la forza di giustificarsi.

Sulla via del ritorno, entrò in un alimentari. Comprò stracchino, panini e tè alla menta. Alla cassa, un anziano le fece un cenno per farla passare avanti.
«Grazie,» disse. E si sorprese di quanto quelle parole suonassero leggere, pacifiche.

A casa era già buio, anche se non era ancora sera. Betta accese non la lampadaria, ma le vecchie lucine natalizie – quelle appese quell’inverno, quando tutto sembrava diverso. Semplice. Felice. Caldo. Ridevano, mangiavano bruschette bruciate, ascoltavano musica da un telefono. Ora, invece, era sola.

Si sedette per terra, appoggiata al muro. Il frigorifero scattò, come a ricordarle che la casa era ancora viva. Non si spaventò. Sospirò soltanto. I rumori non erano più nemici. Erano testimoni.

Prese il telefono. Aprì la cartella delle registrazioni. “La sua voce”. Quindici file. Lui diceva: «Sono con te, sei l’unica per me», «Ce la faremo», «Sei speciale». E l’ultimo file… frammenti, urla, bestemmie, un tonfo sordo – una porta? un pugno? il cuore?

Betta premé “elimina”. E la sua mano non tremò.

Si alzò. Apri la finestra. Si protese verso l’aria – sporca, autunnale, reale. Sul balcone, la porta sbatté di nuovo. Sorrise.

«Lasci pure,» sussurrò. «Che sbatta.»

Preparò il tè. Dispose i panini su un piatto bianco. Si sedette al tavolo. Accese il laptop. Aprì una pagina vuota e scrisse la prima frase:

«Quel giorno, non ebbi paura della solitudine – per la prima volta, sentii di vivere.»

E bastò. Perché il mondo, così rotto e storto, smise di sembrarle ostile. Perché ora era suo. Non allegro. Non perfetto. Ma suo.

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