**10 novembre, un mattino quieto**
Il condominio respirava aria stagnante, un misto di croccantini per gatti, plastica vecchia e qualcosa di dolciastro, come bucce di mandarino dimenticate o un profumo economico. Laura appoggiò la fronte allo stipite freddo della porta e trattenne il fiato. Di nuovo, il balcone accanto si era chiuso di colpo. Terza volta questa settimana. Non era il vento: quel tonfo secco sembrava un urlo, l’eco di una lite che ormai attraversava i muri troppo sottili tra le loro vite.
Si strofinò il naso. Non per il freddo, ma per la stanchezza che ormai le abitava gli occhi. Infilò le sneaker grigie, quelle con i talloni consumati — la sua «armatura quotidiana». Con quelle, era invisibile ma composta. Intera. Almeno in superficie.
Il vicino del quarto piano, quello con i baffi color polvere di mattoni e la tuta blu sempre uguale, le sbucò accanto come un’ombra. Mesi prima le aveva detto: «Dev’essere triste, vivere da sola, no?» Da allora, ogni sua parola le graffiava la pelle come un chiodo arrugginito.
L’autobus arrivò in ritardo, come sempre. Dentro, odorava di giacche bagnate, birra e una rassegnazione acida. Laura si aggrappò alla maniglia finché le nocche non sbiancarono, fissando il vetro appannato. Il suo riflesso: un viso pallido, l’ombra di una nocca sotto l’occhio, il cappotto che le scivolava da una spalla. Come se niente, in lei, fosse al posto giusto. Sua madre diceva: «Sembri un fantasma.» Ma sua madre non sapeva cosa volesse dire vivere giorni che non finivano mai, solo si fondevano in una massa grigia e informe.
In ufficio era deserta. Quasi tutti lavoravano da casa. Erano rimasti solo quelli come lei, per cui stare a casa era peggio che in quel corridoio senza vita. Lì, almeno, nessuno la rimproverava, nessuno scagliava piatti contro il muro, nessuno la trapassava con lo sguardo. Era sicuro. Freddo. Vuoto. Ma sicuro.
All’una uscì nel cortile del palazzo. Non fumava, stava solo in piedi. La guardia di sicurezza fece finta di non vederla, come al solito. Il telefono vibrò. Sua madre.
«Mamma, sono al lavoro.»
«Sei sempre sola. Perché non esci, vai a fare due passi?»
«Ho da fare.»
«Laura, tesoro, questa non è vita. A trentadue anni…»
«Ciao, mamma.»
Chiuse la chiamata. Senza rabbia, solo a corto di scuse.
Sulla via del ritorno entrò in un alimentari. Comprò stracchino, panini e tè alla menta. Alla cassa, un uomo anziano le fece cenno di passare avanti.
«Grazie,» disse lei, sorpresa dalla sua stessa voce, così leggera.
A casa era già buio, anche se mancava la sera. Accese non la luce, ma le lucine di Natale — quelle appese anni prima, quando tutto sembrava diverso. Facile. Allegro. Loro ridevano, mangiavano bruschette bruciate, ascoltavano musica dal telefono. Adesso, nessuno.
Si sedette per terra, la schiena contro il muro. Il frigo emise un clic, come a ricordarle che la casa era ancora viva. Non si spaventò. Sospirò. I rumori non erano più nemici, ma testimoni.
Prese il telefono. Aprire la cartella «Audio». Quindici file. Lui che diceva: «Ci sono io con te,» «Ce la faremo», «Sei speciale». E l’ultimo — urla, bestemmie, un tonfo sordo. Porta? Pugno? Cuore?
Premette «elimina». Senza esitare.
Si alzò. Aprì la finestra. Respirò l’aria sporca, autunnale, vera. Di nuovo, il balcone accanto sbatteva. Sorrise.
«Lascia stare,» sussurrò. «Lascialo sbattere.»
Preparò il tè. Dispose i panini su un piatto bianco. Si sedette e accese il portatile. Scrisse, sulla pagina vuota:
**«Quel giorno non ebbi paura di essere sola — per la prima volta, sentii di esistere.»**
E bastò. Il mondo, storto e rotto, smise di sembrarle ostile. Perché ora era suo. Non felice, non perfetto. Ma suo.
**Lezione:** A volte, la pace è una stanza vuota, una tazza di tè, e il coraggio di cancellare ciò che ci ferisce.