Un nuovo arrivo in famiglia trasforma la mia vita in un incubo quotidiano.

Ormai da tre anni vivo come in un incubo senza fine, impossibile da svegliare. Tutto è iniziato quando mio figlio Matteo, un uomo di trentacinque anni, ha portato a casa sua nuova moglie. Una donna di nome Giovanna, con due figli dal primo matrimonio. All’inizio diceva che sarebbe stato temporaneo. Temporaneo. Quante volte noi donne crediamo a questa parola…

Sono passati tre anni. Nel mio bilocale a Milano non c’è più una famiglia, ma un esercito: io, mio figlio, sua moglie, i suoi due bambini e… lei è di nuovo incinta. A quanto pare, Dio nella mia vecchiaia non mi ha concesso né pace, né comfort, né un attimo di respiro. Forse mi sta punendo per qualcosa.

Giovanna non è disabile, non è malata, ha poco più di trent’anni. Ma lavorare non vuole. Dice di essere «occupata con i bambini». Peccato che i figli vanno all’asilo ogni mattina. Lei, invece, no. Non va al lavoro. Va a fare shopping. O dalle amiche. O dall’estetista. Con quali soldi? Non lo so.

Matteo all’inizio mi rassicurava: avrebbero sistemato i documenti, trovato un lavoro, affittato un appartamento o preso un mutuo. Io ho creduto. Sono una madre, e le madri sperano sempre. Ma è passato un anno, poi un altro, e ora siamo al terzo. Nulla è cambiato. Solo la pancia di Giovanna è cresciuta.

Non posso dire che sia volgare con me. È gentile, parla con educazione. Ma in casa non fa nulla. Non lava il pavimento, non sparecchia, non cucina. Nemmeno i suoi figli li controlla davvero: accende la TV, gli dà qualcosa in mano e passa il tempo al telefono. Poi, la sera, silenzio da lei e urla dai bambini.

Tutte le faccende ricadono su di me. Mi alzo alle quattro del mattino, lavoro come addetta alle pulizie in due uffici, torno a casa alle otto e non ho neanche il tempo di bere un caffè che devo già pulire, lavare, cucinare. Quando tutti sono fuori, rimango sola a strofinare la cucina, fare il bucato, preparare il pranzo. Perché a mezzogiorno tornano e devo aver pronto. Poi altri lavori, la cena, e solo dopo le nove riesco a sedermi. A volte resto in piedi in cucina e piango. Di stanchezza.

La mia pensione finisce in bollette e spesa. Lo stipendio di Matteo non basta per questa tribù. E Giovanna, naturalmente, è «in maternità». Anche prima di esserci ufficialmente.

Qualche giorno fa ho provato a parlare con mio figlio. Gli ho detto che la casa è piccola, siamo troppi, che faccio fatica, che la salute mi tradisce. Sono persa finita in ospedale per la pressione alle stelle mentre cucinavo. Il medico mi ha proibito di affaticarmi. Lui ha scrollato le spalle e ha detto:
«Mamma, non vivi qui da sola. La casa è anche mia. Non andremo via. Non abbiamo soldi. Quindi resisti.»

Fine della discussione.
Fine della gratitudine.
Fine di un figlio.

Sto pensando di andarmene. Di chiedere un prestito, farmi un mutuo, ma trovare un angolo tutto mio. Anche se più piccolo, anche se da ristrutturare. Basta che ci sia silenzio. Che non ci sia nessuno. Perché non ce la faccio più. Non reggerò un altro bambino in questa casa. Qui non si vive più, si sopravvive.

Io non vivo. Io servo. Sono una schiava. Nella mia stessa casa. Nella mia vecchiaia. E la cosa più terribile è che nessuno, nessuno di loro, si chiede come mi senta. Loro semplicemente vivono. E aspettano che io cucini, pulisca, stia zitta.

Vorrei urlare, ma stringo i denti. Non ne posso più, eppure continuo. Perché altrimenti sarebbe tutto sporco, freddo, vuoto. Perché sono una madre. Perché sono una nonna. Perché sono sola.

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