«Un padre imperfetto»

“Padre Difettoso”

Fin da quando ho memoria, con mia madre è sempre stato un circolo vizioso. La mattina presto usciva per lavorare, spazzando le strade del nostro quartiere a Crotone. A pranzo tornava con una bottiglia di plastica di vodka in mano. Alle otto di sera dormiva già – stanca, ubriaca, russando dietro la porta chiusa della sua stanza.

Fortuna che avevamo stanze separate. Così potevo almeno fare i compiti in pace.

A volte mia madre non beveva. In quei giorni pulivamo insieme, preparavamo crostate, ridevamo. Adoravo quei momenti. Credevo che, se mi fossi impegnata, se fossi stata brava, forse lei avrebbe voluto che quei giorni tornassero. Ma poi arrivava il mattino, e tutto ricominciava – di nuovo vodka, silenzio, occhi vuoti.

Quando avevo tre anni, tutto era diverso. Mia madre lavorava in un negozio di alimentari, e mio padre faceva l’autista di un autobus di linea. Ricordo un’estate: camminavamo nel parco tutti e tre, faceva così caldo che l’asfalto si scioglieva, e mio padre ci comprò un gelato. La sua pallina cadde – e subito fu leccata via da un cane enorme e peloso. Ridevamo fino alle lacrime. Mia madre allora gli offrì un po’ del suo cono.

Poi tutto finì. Un giorno, uno sconosciuto bussò alla nostra porta e portò la notizia: mio padre era morto in un incidente. I freni dell’autobus si erano rotti, e lui, per salvare i passeggeri, aveva deviato in una scarpata, sacrificandosi.

Dopo quella notizia, mia madre crollò. Cominciò a bere. Perse il lavoro. Finì a fare la spazzina. La vita diventò sopravvivenza.

Quando compii quattordici anni, arrivò lui – zio Antonio. Bello, sobrio. Non capivo cosa trovasse in mia madre – anche se ancora non sembrava male, magra, il viso non ancora segnato dall’alcol. Poi si scoprì che, semplicemente, non aveva dove vivere.

Ma la sua presenza su mia madre ebbe un effetto magico – smise quasi di bere, cucinava, sorrideva. Non era affettuoso, ma almeno non beveva e non ci picchiava. Già questo era un miracolo.

Dopo sei mesi, mia madre mi disse che era incinta. E, per qualche motivo, la decisione di tenere o meno il bambino la lasciò a me. Io ero felice. Speravo che quel piccolo l’avrebbe riportata definitivamente in vita. Sognavo di spingere il passeggino, di avere una sorellina. Ero sicura – sarebbe stata una femmina.

Mia madre mi ascoltava con gli occhi lucidi. E zio Antonio sembrò contento. Disse che “aveva sempre voluto un figlio”.

Ma dopo qualche settimana iniziò a cambiare. Diventò silenzioso, cupo. Lasciava sempre meno soldi per la spesa, tornava a casa tardi. Mia madre viveva nelle nuvole e non notava niente. Io invece avevo paura.

Arrivò la sera in cui portarono mia madre all’ospedale. Passarono due ore, e zio Antonio cominciò a telefonare.

“Pronto, la Signora Bianchi ha partorito? Maschio? Va bene. Cosa avete detto?” – la sua voce si interruppe, il volto cambiò. Spense il telefono. Si sedette in silenzio.

“Cos’ha la mamma?” – gli afferrai la manica. – “Parla!”

Mi guardò con un’indifferenza strana e borbottò:

“Rosanna ha partorito un mostriciattolo. Un maschio deforme. Non lo voglio. Sono rimasto più del dovuto. Ho un’altra donna, sai – non un’alcolizzata squattrinata, ma una normale, con casa e soldi. Senza bambini difettosi. Di’ a tua madre che non conti più su di me.”

Si alzò e cominciò a preparare le valigie con calma. Io rimasi lì, a guardare la nostra vita che crollava.

“Tu… tu sei un verme!” – mi sfuggì di bocca. – “È tuo figlio! Cosa faremo adesso? Non puoi abbandonarci così!”

Lui sogghignò. Mi guardò con disgusto:

“Sei carina quando ti arrabbi. Peccato che sei ancora una ragazzina…”

Mi scostai, tremando, e sbattuti la porta della mia stanza. Un’ora dopo, si sentì sbattere la porta d’ingresso. Se n’era andato.

Quella fu la notte più nera della mia vita. Piangevo nel cuscino, immaginando il dolore di mia madre. Mi accusavo – ero stata io a convincerla a tenere il bambino.

Passarono gli anni. Nove lunghi anni. Io crebbi, mi sposai. La mia bimba di due anni, Giulia, giocava in salotto. E la piccola Martina – quella che avrebbe dovuto essere mia sorella – era diventata una ragazzina intelligente e luminosa. Vivevamo nell’amore e nella serenità.

Quella domenica mattina suonarono alla porta. Giulia e Martina corsero ad aprire. Volevo urlare: “Chiedete chi è!” – ma non feci in tempo.

Sulla soglia c’era un uomo trasandato, curvo, con una giacca sformata.

“Rosanna c’è?” – grugnì.

Lo guardai meglio e lo riconobbi a stento – zio Antonio. Solo che ora era vecchio, sfinito, senza nessuno.

“Ho pensato… dopotutto, è mio figlio. Ho… deciso di tornare. Sono suo padre… dov’è Rosanna? È ricaduta nell’alcol?”

Lo fissai con freddezza.

“Rosanna non vive qui. E tu non hai un figlio. All’ospedale ti dissero per sbaglio di un’altra donna – la Bianchi. Mia madre ha partorito una femmina. Sana. Bellissima. Eccola, Martina.” – indicai mia sorella. – “Allora, Marti, ti serve un padre così?”

Martina scosse le spalle, come per un brivido, e rispose tranquilla:

“Ho già un padre. Papà Marco. Il più buono e il più vero.”

Prese Giulia per mano e tornò in camera.

“Hai sentito?” – dissi piano. – “Credevi che la tua fuga ci avrebbe spezzato? Invece è successo il contrario. Mamma non è tornata a bere. Si è presa cura di Martina, è rinata. Poi ha incontrato Marco – un uomo vero. Vivono qui vicino. E sì, è diventato un padre per noi.”

“Violante, chi è?” – arrivò dalla cucina.

“Nessuno, amore. Solo… nessuno.” – risposi.

E in quel momento, spingendo quell’uomo fuori dalla porta, sentii d’un tratto un peso svanire. Più leggera, più luminosa. Per nove anni avevo aspettato che tornasse. Ora era finita. E nella nostra casa non ci sarebbero più state ombre.

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