Oggi mi sento particolarmente riflessiva. Ero alla finestra osservando Marco fare su e giù in cortile con la sua nuova auto scintillante. La vicina, la signora Bianchi, era già affacciata per la terza volta – il rumore del motore doveva disturbare la sua telenovela preferita. Ma lui continuava a girare come un ragazzino con il suo giocattolo nuovo.
“Mamma, posso fare un giro con papà?” chiese Beatrice, la mia quattordicenne, sbirciando oltre la mia spalla.
“Chiediglielo tu,” risposi seccamente, allontanandomi dalla finestra.
Lei fece una smorfia.
“Ma dai, cosa c’è che non va? L’ha comprata per tutta la famiglia!”
“Per la famiglia…” Sorrisi amaramente. “Sai quanto costa quest’affare? E intanto non abbiamo i soldi per sistemare la casa in campagna, né per mandarti in colonia.”
“Ma ci serve un’auto!” protestò, sedendosi sul divano con le gambe incrociate. “Ti ricordi quando andavamo in autobus dalla nonna? Tre cambi e quel caldo…”
Mi appoggiai al muro e chiusi gli occhi. Sì, me lo ricordavo. Ma ricordavo anche i sei mesi di discussioni con Marco. Io proponevo un’usato modesto, lui no: “O una macchina decente o niente”. Risultato? Un mutuo quinquennale che ci costringe a contare ogni centesimo.
La porta sbatté, seguita da passi allegri.
“Ragazze mie!” Marco entrò raggiante. “Bea, vieni a fare un giro? E tu, Loredana?”
“Io non sono Loredana,” ribattei fredda.
Lui si fermò di colpo, il sorriso svanito.
“Che c’è stavolta?”
“Tutto! Hai comprato quell’auto senza consultarmi! Un mutuo che pagheremo per anni!”
“Ne avevamo parlato…”
“Avevamo parlato di un’auto, non di questo affare da trentamila euro!”
Beatrice rabbrividì e scivolò via dalla stanza. Ormai era abituata alle nostre liti, ma sperava sempre che finissero bene.
“Affare?” Marco arrossì. “È una giapponese, affidabile e sicura! Per la mia famiglia voglio solo il meglio!”
“E chiedere alla famiglia no, eh?” Mi sedetti, sopraffatta dalla solita stanchezza. “Marco, avevamo un budget…”
“Budget, budget!” Camminò su e giù gesticolando. “E poi? Andiamo al mercato in autobus, con le buste della spesa pesanti? Ti sei dimenticata di quando ti faceva male la schiena?”
Ricordai quel giorno. Avevamo comprato tante verdure dai miei genitori in campagna, e io avevo trascinato buste pesanti dalla fermata. Per tre giorni non mi ero ripresa. Ma ora sembrava una sciocchezza rispetto al mutuo che ci aspettava.
“Senti,” mi alzai, “ne parliamo domani. Quando ti sarai calmato.”
“Non mi calmo! Perché ho ragione io! Tu… sei sempre insoddisfatta!”
La porta della camera da letto sbatté. Marco rimase solo in salotto, fissando le chiavi della nuova auto.
Al mattino mi svegliai presto, come sempre. Lui russava sul divano – aveva dormito lì. In cucina, preparai il caffè. Fuori pioveva, il cielo grigio basso come il mio umore.
“Mamma,” Beatrice entrò, “posso saltare scuola oggi?”
“Perché?”
“Mi fa male la testa.”
La guardai meglio. Era pallida, con delle occhiaie.
“Per colpa nostra?”
Annuì senza alzare gli occhi.
“Bea,” l’abbracciai, “noi adulti… a volte litighiamo. Ma non significa che non ti vogliamo bene.”
“Voi non divorzierete, vero?”
La domanda mi lasciò senza fiato.
“Perché dici così?”
“I genitori di Sofia si sono separati. Prima litigavano sempre per i soldi.”
Mi voltai verso la finestra. Il divorzio. Ci avevo pensato anch’io, soprattutto ultimamente. Quando Marco prendeva decisioni senza di me. Quando sembrava che vivessimo vite parallele sotto lo stesso tetto.
“Mamma?”
“Preparati per scuola. Il mal di testa passerà.”
Lei sospirò e uscì. Io rimasi con la tazza di caffè ormai freddo tra le mani.
“Buongiorno,” Marco apparve sulla porta. Sembrava stanco, a pezzi.
“Giorno.”
“Possiamo parlare civilmente?” Si sedette, massaggiandosi la faccia. “Ieri ho esagerato…”
“Non hai esagerato, hai comprato un’auto senza chiedermelo.”
“Lore’, ma ci serve! E poi, io lavoro…”
“E io no? Il mio stipendio non conta?”
“Certo che conta! Solo…”
“Solo che credi di poter decidere da solo perché porti a casa più soldi.”
Lui tacque. Quel silenzio diceva più di mille parole.
“Capisco,” posai la tazza nel lavandino. “Allora paga tu il mutuo.”
“Come? Siamo una famiglia!”
“Una famiglia è quando ci si consulta. Qui invece: decidi, compri, e io mi arrangio.”
Marco si avvicinò.
“Loredana, sembri un’estranea. Siamo insieme da vent’anni…”
“Esatto! Vent’anni! E non hai ancora imparato ad ascoltarmi!”
Uscii, lasciandolo alle sue riflessioni.
Al lavoro non riuscivo a concentrarmi. La mia collega Clara notò la mia distrazione.
“Che succede? Sembri esausta.”
“Questioni di famiglia.”
“Marco ha combinato qualcosa?” Ci conoscevamo da dieci anni in ufficio.
“Ha comprato un’auto. Costosa. A mutuo.”
“Ah,” annuì. “Capisco. Anche il mio ex faceva così. Una volta comprò un aspirapolvere da mille euro. Diceva: ‘Così fatichi meno!’ A me andava bene quello vecchio.”
“Clara,” posai i documenti, “hai mai pensato… al divorzio?”
Lei alzò le sopracciglia.
“Certo. Chi non ci ha pensato? Ma alla nostra età è come… rinascere. Fa paura.”
“Non è l’età,” sospirai. “È che non ha senso vivere con chi non ti ascolta.”
“Ma forse nemmeno tu lo ascolti?”
La domanda mi colse alla sprovvista. Quando era l’ultima volta che avevo davvero sentito Marco? Senza interromperlo, senza sminuire le sue parole?
Quella sera tornai a casa stremata. In cucina, l’odore del ragù: Marco stava cucinando. Raramente lo faceva.
“Mamma, papà ha fatto gli spaghetti!” annunciò Beatrice raggiante. “Con il sugo fatto da lui!”
“L’ho cotto per ore,” disse orgoglioso. “Come piace a te.”
Andai a lavarmi le mani. Davanti allo specchio mi osservai: viso stanco, rughe, capelli grigi che tingevo con cura. Quarantatré anni. Più di metà vita vissuta. E quasi metà di questi, con Marco.
A cena, lui era insolitamente silenzioso. Beatrice chiacchierava della scuola, noi mangiavamo senza guardarci.
“Bea, vai a fare i compiti,” dissi alla fine.
“Ma non ho finito…”
“Vai,” replicò dolcemente Marco.
Restammo soli. Io sparecchiavo, lui girava un cucchiaino tra le dita.
“Lore’,” iniziò incerto, “oggi ho pensato… a noi.”
Mi fermai, senza voltarmi.
“A cosa?”
“Che siamo diventati estranei. E che forse è colpa mia.”
Allora lo guardai. Lui fissava il tavolo.
“Non volevo turbarti con l’auto. CredeE mentre la pioggia tamburellava contro i vetri, mi resi conto che forse l’amore non è solo il grande gesto di un’auto nuova, ma anche la pazienza di riparare insieme ciò che il tempo ha logorato.






