**7 febbraio, Roma**
Era estate quando questa panchina in piazza Santa Maria in Trastevere brulicava di vita: ragazzi che mangiavano gelato, ridevano, discutevano di film e partite. In autunno, arrivavano gli operai con le giacche arancioni sporche di polvere—a sgranocchiare qualcosa tra un turno e l’altro, a parlare di chi si era licenziato, chi si era sposato, chi era stanco. E ora? Febbraio. Grigio, gelido, muto. Sulla panchina—nessuno. Solo Fiorella. Avvolta in una sciarpa come in un bozzolo, nascosta dal mondo.
Il vento strappava gli ultimi rami secchi dagli alberi, fischiava nelle orecchie, penetrava fino alle scapole. Ma lei non si muoveva. Stava lì, fissando l’asfalto davanti a sé. Come se lì, sotto strati di ghiaccio e sale, ci fosse una risposta. Un senso. O almeno una pausa.
Accanto a lei, un sacchetto di plastica. Di quelli dello yogurt. Colazione ingoiata in fretta, senza sapore, senza voglia. Mancavano quaranta minuti all’appuntamento col dottore. Non aveva voglia di andarci. Tornare a casa? Peggio. Non aveva davvero un posto dove andare. Voleva solo restare seduta. Senza che nessuno la toccasse, le chiedesse nulla, la guardasse.
Ieri, all’ospedale, le avevano detto: «Niente di grave. È nevrosi. Stress. Devi riposare». Il medico parlava con la solita indifferenza. L’infermiera sbrigava carte. E Fiorella annuiva, muta. Come sempre. Come a casa, come al lavoro. Era uscita senza sapere dove dirigersi. Non si sentiva più dentro la vita, ma fuori—come dall’altra parte di un vetro, dove tutto si vede ma non si tocca.
Ogni mattina si svegliava con un nodo in gola e il desiderio di svanire. Non di morire. Di sparire. Diventare invisibile in mezzo alla gente, sulla metro, nei corridoi della scuola. Nessuno avrebbe chiesto: «Dove sei stata?», «Perché non hai chiamato?», «Ma perché sei sempre così silenziosa?»
A casa, il figlio adolescente. Le loro conversazioni si riducevano a: «Hai mangiato?» — «Sì». Il marito? Quasi muto. Taceva così tanto che tra loro sembrava crescere un muro. Spesso, grigio, invalicabile. Nemmeno gli sguardi riuscivano a passarci. Non litigavano. Semplicemente, avevano smesso. Come se l’amore si fosse spento, lasciando solo vuoto.
Lavorava come contabile in una scuola. Nessuno la disturbava. Un vantaggio, in teoria. Ma in quel silenzio, le veniva voglia di urlare. A squarciagola. Fino a perdere la voce.
Qualcuno si sedette accanto a lei. Un vecchio. Non chiese permesso. Si accomodò e basta. Giacca imbottita sgualcita, berretto di lana. In mano, un giornale stropicciato come vecchi guanti. Lo aprì borbottando, come se lottasse contro il vento. Si schiarì la gola:
«Che aria gelida oggi. Ti entra nelle ossa».
Fiorella annuì appena. Senza guardarlo. Il vento era davvero freddo—ma il problema non era quello.
Passarono altri due minuti.
«Lei perché è così…» fece una pausa, «come se non fosse davvero qui?»
Le sfuggì un sorriso. Il primo da giorni.
«Sono qui. Solo che non ho nessuno con cui parlare».
«Capisco», annuì lui. «Lo so. Anche io, dopo la morte di mia moglie. Tutto intorno c’è, ma nessuno accanto. Poi, piano piano, è passato. Non so se mi sono abituato al cane o se mi si è seccata l’anima. O forse ho imparato a parlare da solo. Su una panchina è più facile».
Fiorella lo guardò.
«Da quanto tempo è solo?»
«Otto anni. All’inizio contavo i giorni. Poi ho smesso. Ricordo solo il suo compleanno. Il mio, no».
Lo osservò meglio. Un volto normale. Rughe attorno agli occhi. Lo sguardo—caldo. Discreto. Vivo. Come una coperta logora—semplice, ma familiare.
«E lei chi aspetta qui?»
Sorrise, un po’ ironico.
«Nessuno. Qui le pareti non soffocano. A casa, sì. Ma qui… c’è aria, la gente che passa, chi porta a spasso il gatto, chi sgranocchia semi. A volte si siede qualcuno. Chiacchieriamo. O stiamo zitti. Anche quello è un dialogo. Se si sa come fare».
Tacquero. Ma non più in modo vuoto. Erano semplicemente lì, insieme. Per dieci minuti nessuno si mosse. Gli alberi scricchiolavano, qualcuno passò di corsa, un cane abbaiò in lontananza. Fiorella sentì qualcosa muoversi dentro di sé. Non dolore. Non sollievo. Solo vita. Come una crepa minuscola, invisibile finché non la tocchi. E adesso—eccola, tangibile.
«Ho pensato una cosa», disse piano. «A volte non serve un dottore. Serve qualcuno. Solo qualcuno che stia seduto accanto. Senza fare domande. Senza chiedere spiegazioni. Che ci sia, e basta».
L’uomo non rispose. Appoggiò il giornale sulle ginocchia e lo lisciò con un gesto lento. Come per calmarlo. Nel suo silenzio non c’era indifferenza—ma accoglienza.
Alla fine, non andò dal dottore. Rimase lì. Fino all’arrivo dell’autobus. Poi lui si alzò, le fece un cenno con la testa e se ne andò. Senza voltarsi. Lento, un po’ curvo. E lei rimase.
Ma non più la stessa.
A volte basta qualcuno. Non un familiare. Non un amico per sempre. Solo qualcuno che si sieda accanto e non ti lasci svanire nel tuo silenzio. Che ti veda, senza giudicare, senza chiedere il perché. Che sia lì. Accanto.
A volte—è più che abbastanza.