“Chiama un’ambulanza,” disse una voce nella testa di Andrea, che si guardò intorno confuso.
Questa storia me l’ha raccontata un amico.
Succede spesso che qualcuno ci parli di un miracolo vissuto, e noi non ci crediamo. Ascoltiamo, annuiamo, ma dentro pensiamo che sia una fantasia, un sogno, o un’illusione. Miracoli? Angeli? Dio? Roba da vecchiette, cose di cui non vale la pena fidarsi.
E poi, da dove verrebbero i miracoli in quest’epoca frenetica? Perché proprio a quello strambo e non agli altri? Se mi capitasse qualcosa del genere, forse allora ci crederei.
Così ragionava Andrea, ventottenne romano. Viveva con sua madre, Rosaria, da quando suo padre era morto quando lui aveva dieci anni. Non aveva fretta di sposarsi: frequentava una ragazza modesta, Lucia. Prima voleva comprare casa, per portarci la futura moglie. Affittare? Perché correre? E poi, non voleva lasciare sua madre sola.
Un ragazzo all’antica, per i tempi moderni. Lavorava nel settore informatico, un semplice programmatore. Un giorno, durante il lavoro, ricevette una chiamata da sua madre. Lei non lo disturbava mai senza motivo. Se chiamava, era grave. Andrea rispose subito.
“Figlio mio,” disse Rosaria con voce tremula. “Mi sono rotta la gamba. Fa così male… non riesco a muovermi.”
“Dove sei?!” Andrea si alzò di colpo, pieno d’ansia.
“Sono vicino al nostro supermercato Esselunga. Ho già chiamato l’ambulanza. Ti ho telefonato per avvisarti, non si sa mai…”
“Mamma, arrivo!” E corse verso di lei.
Un’altra chiamata lo raggiunse in macchina. Rosaria gli disse che la portavano all’ospedale regionale. Andrea invertì la rotta. Quando arrivò, sua madre era già in sala operatoria. Aspettò per ore nel corridoio.
“Tornate domani, quando la sposteranno in reparto,” gli disse il chirurgo uscendo.
Il sole stava tramontando quando Andrea uscì dall’ospedale. Si fermò in un negozio a comprare succo e frutta per sua madre. Uscendo, notò una donna che barcollava. Sorpreso, pensò che fosse ubriaca, nonostante l’aspetto rispettabile. Arrivato alla macchina, la guardò di nuovo.
La donna si fermò, allungò una mano come per aggrapparsi a qualcosa, ma non trovando appoggio, barcollò e cadde sull’asfalto. Senza pensarci, Andrea corse da lei.
Mise a terra il sacchetto, si accovacciò e la chiamò. La donna non rispondeva. Andrea si avvicinò: niente odore di alcol. Cosa fare? Non sapeva nulla di medicina. Non c’era nessuno intorno.
“Mi sente? Sta male?” Le diede qualche colpetto sulle guance, ma niente.
“Non serve. Chiama un’ambulanza e solleva la testa con qualcosa.” La voce nella sua testa era così chiara che Andrea si guardò intorno.
Nessuno. Solo un uomo lontano con un cane al guinzaglio. Troppo lontano per sentirlo. E la donna era svenuta, impossibile che avesse parlato.
Andrea chiamò il 118 e spiegò la situazione.
“Di’ che ha avuto un ictus. Sbrigati.” Di nuovo quella voce.
Andrea ripeté al telefono che era un ictus e pregò che arrivassero in fretta. Forse era solo il suo dialogo interiore, pensò.
“Ora sollevala la testa. Ma piano.”
Non aveva nulla a portata di mano. Si tolse la camicia, la piegò e la mise sotto la testa della donna. Aspettò l’ambulanza, pregando in silenzio.
“Non stare fermo, strozzale le orecchie.”
Andrea lo fece, finché non diventarono rosse. Forse fu quello, o stava riprendendosi da sola, ma quando sentì la sirena, le palpebre della donna tremarono.
“Grazie a Dio, si sta svegliando.” Andrea sospirò sollevato.
Due donne uscirono dal negozio, si avvicinarono, fecero domande. Altri si radunarono curiosi.
Arrivarono i paramedici, caricarono la donna e la portarono via.
“È un ictus?” chiese Andrea.
“Sembra di sì. Lei è un medico?”
“No. Ho solo chiamato i soccorsi.”
“Ha fatto bene, anche con la testa. Speriamo sia in tempo.” L’infermiere salì sull’ambulanza.
“In che ospedale la porterete?”
“Al regionale.” La porta si chiuse e l’ambulanza partì.
La folla si disperse. Andrea si ripulì la camicia e se la rimise. Il sacchetto con la spesa era sparito. “Va bene, domani ricompro tutto,” pensò e tornò a casa.
Non mangiò, fissando il vuoto. Chi aveva parlato nella sua testa? Di solito le sue azioni erano guidate da pensieri confusi, non da ordini chiari. E poi, come aveva capito l’ictus? Se lo avesse raccontato, avrebbero detto che era pazzo.
Provò a richiamare quella voce, ma niente. Solo i suoi pensieri. “Forse era la donna. Una sensitiva?” Decise che era l’ipotesi più plausibile e si addormentò.
Il giorno dopo andò a trovare sua madre. Lei si lamentava:
“Come ho fatto a rompermi il femore così? Figlio, mangia al ristorante, non vivere di panini. Cosa hai mangiato ieri? Non ho fatto in tempo a cucinare…”
“Non preoccuparti. Dimmi cosa portarti, o chiedo a Lucia di cucinare.”
Uscito dalla stanza, senza pensarci, andò all’accettazione.
“Ieri sera avete portato una donna con ictus.”
La infermiera lo indirizzò all’archivio. Mentre aspettava, si chiese cosa ci facesse lì. Aveva fatto il suo dovere, chiamato i soccorsi…
Nell’archivio gli dissero che Giuseppina Bianchi era al terzo piano, nel reparto di neurologia. Non poteva ricevere visite.
Andrea non voleva vederla. Non sapeva nemmeno perché si fosse informato.
Non sentì più quella voce e si tranquillizzò. Doveva essere stata solo l’adrenalina.
Sua madre migliorava, iniziava a camminare con le stampelle. Un giorno, scendendo le scale (gli ascensori erano sempre occupati), vide il cartello “Neurologia” e si fermò. “Qualcuno va a trovare quella Giuseppina? Come sta?” Quasi spinto da una forza, entrò.
Nella settima stanza, tutte donne anziane, pallide.
“Cerca qualcuno?” chiese una vicino alla porta.
“Giuseppina Bianchi.”
“Sono io,” rispose una dal letto vicino alla finestra.
Andrea si avvicinò.
“Sei un amico di Marco?” chiese lei, parlante lentamente, con la bocca leggermente storta.
Andrea si stupì. Si aspettava che fosse moribonda, invece parlava.
“Non conosco nessun Marco. Ho chiamato l’ambulanza quando è caduta.”
Giuseppina annuì appena.
“Ti ho visto.”
“Ma era svenuta.”
“Sei stato vicino a mio figlio. Ti ha parlato.”
Un brivido gli corse lungo la schiena. Pensò solo: “È pazza.”
“Mio figlio è in coma dopo un incidente. Quando l’ho saputo, quasi impazzisco.” Come se confermasse i suoi sospetti. “Poi mi è girata la testa… non ricordo altro, solo Marco e te accanto a lui. Ero felice che si fosse svegliato. Ma è ancora in coma.” Lo guardò con speranza.
“Se le serve qualcosa, glielo porto. Vengo ogni giorno per mia madre, con la”Grazie,” sussurrò Giuseppina, e in quel momento Andrea capì che a volte il cuore sa ascoltare anche ciò che gli occhi non vedono.