Un tassista di Milano, Marco, si fermò davanti all’ultimo cliente della serata e suonò il clacson. Lo suonò di nuovo. Nessuna risposta. Invece di allontanarsi, parcheggiò, scese, andò alla porta e bussò.
“Un attimo,” rispose una voce flebile e anziana.
Sentì passi lenti e trascinati. La porta si aprì e apparve una piccola donna di novant’anni, vestita con un abito floreale e un cappellino con velo, come uscita dagli anni quaranta. Accanto a lei c’era una valigetta di nylon. Dentro l’appartamento, il tempo sembrava fermo: mobili coperti da lenzuola, nessun orologio, nessun piatto, solo una scatola di vecchie fotografie e qualche bicchiere in un angolo.
“Mi porta la borsa al carro?” chiese gentilmente.
Con passo lento, la accompagnò al taxi. Lei lo ringraziò più volte.
“È nulla,” rispose Marco. “Tratto i miei passeggeri come vorrei fosse trattata mia madre.”
Una volta dentro, la signora gli indicò l’indirizzo… poi esitò.
“Mi porta in centro?”
“Non è la via più breve,” disse lui.
“No, non importa. Devo andare in una casa di riposo,” rispose lei con voce soffusa.
Marco la guardò nello specchietto retrovisore; i suoi occhi brillavano di un luccichio triste.
“Non ho più famiglia. Il dottore dice che non mi resta molto tempo.”
Il conducente spense silenzioso il tassametro.
“Quale percorso preferisce?”
Per le successive due ore vagarono per la città. Lei gli mostrò l’edificio dove aveva lavorato da ascensorista, il quartiere dove lei e il marito si erano sposati da giovani, la vecchia sala da ballo dove da bambina girava felice. A volte chiedeva di rallentare, fissando in silenzio un angolo di strada o un edificio che custodiva ricordi.
All’alba, con la prima luce, disse: “Sono stanca. Andiamo.”
Arrivarono a una piccola casa di cura. Due assistenti li attendevano. Marco portò la borsa dentro; la signora era già in sedia a rotelle.
“Quanto le devo?” chiese, allungando la mano verso il portafoglio.
“Niente,” rispose lui.
“Devi guadagnarti da vivere,” protestò lei.
“Ci sono altri clienti,” replicò Marco.
Senza pensarci, si chinò e la abbracciò. Lei lo strinse forte.
“Hai regalato a una vecchia un attimo di gioia,” sussurrò.
Marco si allontanò nella luce pallida del mattino. Dietro di lui una porta si chiuse, segno silenzioso dell’ultimo capitolo di una vita.
Non prese più nessun passeggero; continuò a guidare, perso nei pensieri.
E se avesse incontrato un conducente impaziente? Se avesse solo suonato il clacson una volta e se ne fosse andato? Capì che nulla di ciò che aveva fatto era più importante di quella notte.
Spesso crediamo che la vita sia fatta di grandi eventi. In realtà i momenti più veri arrivano in silenzio, travestiti da piccole azioni di gentilezza.
Bonus
La storia del giro notturno con la signora anziana divenne leggenda tra i tassisti milanesi. Un giovane autista, sentendola, commentò:
— Sono solo poche ore della mia vita… perché sprecare così tanto tempo?
Il collega più esperto rispose:
— Perché non sappiamo mai quando i nostri minuti diventeranno gli ultimi ricordi di qualcun altro.
Tutti noi pensiamo di dover correre: guadagnare più in fretta, arrivare più in fretta, fare di più in fretta. Ma a volte è più importante fermarsi, ascoltare, stare vicini. Sono proprio questi istanti che entrano nella storia di un altro e, di conseguenza, nella nostra. Quando un giorno ci chiederanno cosa abbia riempito la nostra vita, probabilmente ricorderemo non i guadagni o i chilometri percorsi, ma quei “piccoli grandi” gesti che hanno scaldato i cuori altrui.
Il bene non richiede molto, solo presenza e attenzione. Ed è proprio questa presenza a trasformare una giornata ordinaria in un momento che vale la pena vivere.