Un vecchio scapolo che abbraccia la solitudine.

Oggi mi sento di scrivere di quella strana estate che cambiò tutto. Ero sempre stato un uomo solitario, un eterno scapolo che non si lamentava della propria sorte. Lavoravo come un mulo, ma amavo il mio lavoro. La perfezione era la mia ossessione, e con le donne non era mai andata bene: nessuna mi era sembrata quella giusta. Alla fine di luglio, stanco morto, decisi di fuggire dalla civiltà. Cercai un posto tranquillo su internet e pubblicai un annuncio.

Rispose una donna del sud, con due bambini. A venti minuti a piedi dal mare, lontano dal caos delle località turistiche. Una stanza in affitto, e in cambio della spesa, avrei avuto pasti casalinghi. Mi convinsi. Arrivai senza intoppi, il navigatore fece il suo dovere. La casa era vecchia ma pulita, la stanza accogliente, e la padrona di casa, Anna, gentile. Nel cortile correva un cagnolino, un volpino di piccola taglia. Nell’orto maturavano i pomodori, e due bambini, un maschietto e una femminuccia di circa 9-10 anni, aiutavano con le faccende. Anna non mi dava fastidio, mi chiedeva cosa preferissi per cena, mi offriva fragole dolcissime e mi sorrideva. Passavo le giornate al mare, nuotavo, scalavo le rocce, fotografavo e scrivevo a un vecchio amico su Facebook. A volte mi chiedevo come mai una donna di quasi cinquant’anni avesse figli così piccoli. Alla fine glielo chiesi.

“Anna, sono i tuoi nipoti?”
“No,” rispose lei, “sono i miei figli. Sono arrivati tardi. Non ho mai avuto una famiglia, ma ho voluto diventare madre lo stesso. E poi, non sono così vecchia, ho solo 48 anni.”

Mentre parlavamo, la osservai meglio: dolce, sorridente, con un che di familiare. E quel nome, Anna… Ninuccia. Come mia madre. Profumava di fragole e burro fresco. Il vino giovane era delizioso, le serate fresche e il cielo stellato. Eravamo adulti, senza giochi stupidi. Di giorno facevamo finta di niente, di notte io scivolavo nella sua stanza, poi tornavo nella mia in punta di piedi. I bambini non dovevano sapere. Il cagnolino non abbaiava mai, mi fissava con occhi furbi, come se capisse. Brava bestiola, frugale. Mangiava due cucchiai di crocchette ma sorvegliava il cortile come un mastino. La chiamavano Milù.

Presto iniziò a seguirmi al mare, nuotava con me, poi usciva, si scrollava e correva a casa prima di me. Io la seguivo. Ma un giorno Milù non tornò. La cercai dappertutto, urlai il suo nome, affissi decine di volantini. Dov’era finita? Una vicina anziana sussurrò che forse l’avevano rubata quelli che affittavano l’altra casa in paese. Corsi lì, ma mi dissero che erano partiti un’ora prima, in direzione della statale, con un cagnolino. Saltai in macchina e partii a razzo. Li raggiunsi dopo ottanta chilometri, bloccandoli sulla strada. Dal SUV scesero due ragazze sfacciate.

“Eh, togli quella macchina di mezzo! Non sai guidare? Chiamo la polizia!”
“Chiamatela,” dissi io, “ma prima restituitemi il cane.”
“Ma chi credi di essere?” rise quella più alta, “è un randagio, lo stiamo salvando noi!”
“Non è un randagio,” ribattei, “ha una famiglia. E non è la vostra.”
“Vai a farti fottere!” strillò l’altra, “se non ti muovi, ti spacco i vetri!”

Le aggirai e chiamai: “Milù! Milù!” Il cagnolino iniziò a guaire e a saltare sui sedili, cercando di infilarsi dal finestrino. Le due cercarono di afferrarmi, imprecando. Non sapevo cosa fare, non potevo certo picchiarle.

Fortuna che arrivò un poliziotto, grosso, sudato, con la divisa che gli scoppiava. Si tappò le orecchie dalle urla e prese Milù in braccio.
“Basta così. Vediamo con chi va il cane. Tanto nessuno ha i documenti.”

“Cici! Briciola!” fecero le ragazze, tirando fuori un salame, “vieni da noi, andiamo in macchina!”
“Andiamo, Milù,” dissi io.

L’agente posò la cagnetta a terra. Lei mi corse incontro, scodinzolando e abbaiando.
“Ecco risolto,” sbuffò il poliziotto.

“No, il cane è nostro!” strillarono, “non può portarcelo via! Chiameremo i tuoi superiori!”

L’agente diventò paonazzo.
“Sentite, salvatiche. O ve ne andate per le buone, o vi controllo assicurazione, estintore, triangolo, farmacino… E conto tutte le pastiglie. La macchina è sporca, e poi voglio controllare se è rubata. Ma il database è in caserma…”

Il SUV sparì in un attimo.
Stringei la mano al poliziotto.
“Grazie, agente.”
“Figurati. Anch’io ho un bastardino così. Un fifone e un furbo. D’inverno lo vesto, è un freddoloso. Razza fedele, poi… comoda la taglia. Buona fortuna. Non infrangere il codice.”

Ripartii, con Milù sulle ginocchia, calda, il pelo morbidissimo come velluto. Mi sentivo bene, da tanto tempo non mi sentivo così. La strada era dritta, la macchina rombava piano, e Milù era serena. Eppure, in quel benessere, mi assalì la malinconia: presto sarei tornato a casa. Nella mia vuota casa, nessuno mi aspettava. Mi venne in mente di tornare indietro e portarmi via Milù. Cosa mi importava delle mie cose? Solo due magliette, mutande e una tuta. La pensai un attimo, sospirai, e tornai da Anna.

L’ultima settimana fu piovosa, ma io andavo lo stesso al mare. E Milù con me. Di notte strisciavo nella stanza di Ninuccia, ma al mattino la tristezza si faceva più forte. Il giorno della partenza era soleggiato. Avevo già fatto le valigie. Regalai qualcosa ad Anna, le lasciai il mio numero e salii in auto. Acceleravo piano, pensando che la vacanza fosse finita, e con lei anche la storia con Anna. Era ora di tornare alla mia vita. Arrivai sull’asfalto, e vidi che Milù correva dietro alla macchina. Aumentai la velocità, ma lei correva più forte. Continuai, lei indietreggiò, poi scomparve.

Fermai l’auto. Scesi, accesi una sigaretta e le mani mi tremavano. La finii, schiacciai il mozzicone nel posacenere e guardai la strada. Una minuscola macchiolina avanzava verso di me. Corsi come un matto, pregando che non passassero macchine, potevano schiacciarla. Non correvo così da dieci anni. Milù mi veniva incontro, esausta. Era tutta impolverata, la polvere le riempiva la bocca, gli occhi, persino le orecchie. Scodinzolò e cercò di abbaiare, ma starnutì solo. La presi in braccio e la pulii. Le diedi da bere dall’acqua nella borraccia. Poi chiamai Anna.

“Il vostro cane è con me. Mi ha seguito in macchina. Non preoccupatevi, ve la riporto subito.”
“Puoi tenerla, se vuoi. Anch’io l’avevo raccolta, dieci giorni prima che arrivassi. L’avevano buttata giù da un furgone, davanti al supermercato.”
“Davvero posso prenderla”Davvero posso prenderla?” chiesi, e quel sì di Anna cambiò per sempre la mia vita, riempiendola del calore di una famiglia, del fruscio di piccoli piedi sul pavimento, del guaito felice di Milù, e dell’odore di basilico e pomodoro che avvolgeva la nostra nuova casa.

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