Una casa di nessuno
Giancarlo si svegliò senza bisogno della sveglia, come sempre, alle sei e mezza. In appartamento regnava il silenzio, solo il frigorifero borbottava piano dalla cucina. Rimase sdraiato un momento, ascoltando quel rumore familiare, poi allungò la mano verso gli occhiali posati sul davanzale. Fuori albeggiava, rare automobili passavano lente sullasfalto bagnato.
Un tempo a quellora si preparava per andare al lavoro: si alzava, andava al bagno, ascoltava il vicino che accendeva la radio oltre la parete. Ora la radio del vicino cera ancora, ma Giancarlo restava a letto, a domandarsi come avrebbe impiegato la giornata. Tecnicamente era in pensione già da tre anni, ma per abitudine continuava a vivere seguendo un suo ritmo.
Si alzò, si mise i pantaloni della tuta, andò in cucina. Mise su la moka, estrasse dalla cesta il pane avanzato dal giorno prima. Mentre lacqua si scaldava, andò alla finestra. Settimo piano, palazzina anni Settanta, cortile con la piccola area giochi. Sotto casa, la sua vecchia Fiat Panda, coperta da un sottile strato di polvere. Istintivamente, pensò che sarebbe stato il caso di passare dal box auto a controllare se il tetto perdeva.
Il box, comprato con la cooperativa, era a tre fermate di autobus. Un tempo ci passava metà dei fine settimana, armeggiando con la macchina, cambiando lolio, chiacchierando con i vicini di calcio e prezzi della benzina. Le cose poi si erano fatte più facili: officina, gommista, una telefonata e risolvevi. Ma il box non lo aveva mai mollato. Lì erano riposti gli attrezzi, le gomme da neve vecchie, scatole di cavi e tavole, roba che non si sa mai, come diceva lui.
E poi cera la casa in campagna. Una casetta al confine tra il Mantovano e il Reggiano, con portichetto stretto, due stanze e una cucinetta minuscola. Quando chiudeva gli occhi, vedeva quelle assi di legno, le crepe nel pavimento, sentiva la pioggia battere sul tetto. La casa era arrivata anni prima dalla famiglia di sua moglie. Più di ventanni fa ci andavano quasi ogni fine settimana con i figli piccoli: vangavano lorto, friggevano patate, mettevano la radio sulle sedie di plastica.
La moglie non cera più da quattro anni. I figli erano cresciuti, ognuno nella sua vita, nelle rispettive case. Restavano la casa in città, la casa in campagna, il box. Come se quei luoghi tenessero Giancarlo ancorato a una sorta di coordinate rassicuranti. Ecco lappartamento. Ecco la casetta in campagna. Ecco il box. Tutto al proprio posto, tutto comprensibile.
La moka borbottò. Giancarlo preparò il caffè, si mise a tavola. Sulla sedia di fronte cera il maglione piegato dal giorno prima. Mangiava il pane col formaggio, guardando il maglione e ripensando alla conversazione della sera precedente.
Ieri i figli erano passati a trovarlo. Il figlio con la moglie e il bambino, il nipote. La figlia con il marito. Avevano bevuto il tè, parlando di vacanze estive, poi il discorso era scivolato, come sempre più spesso, sulle questioni di soldi.
Il figlio diceva che il mutuo pesava, le rate salivano. La figlia si lamentava: lasilo del piccolo costava tanto e poi cerano i corsi, i vestiti. Giancarlo annuiva: ricordava bene anche lui quando contava i centesimi fino alla paga. Ma allora non aveva né il box né la casa in campagna. Solo una stanza in affitto e tante speranze.
Poi, con una certa esitazione, il figlio aveva detto:
Papà, ne parlavamo con Martina e anche con Elena. Magari potresti vendere qualcosa tipo la casetta in campagna o il box. Tanto ormai ci vai poco.
Giancarlo aveva buttato là una battuta, aveva cambiato argomento. Ma la notte non aveva dormito: quella frase, ci vai poco, non gli usciva dalla testa.
Finì il pane, bevve il caffè, mise la tazza nel lavello. Guardò lorologio. Erano le otto. Decise che sarebbe andato a vedere la casetta. Meglio dare unocchiata dopo linverno. E, magari, dimostrare qualcosa almeno a se stesso.
Si vestì pesante, prese dallingresso le chiavi della casetta e del box, se le infilò nella tasca del giaccone. Nel corridoio si soffermò davanti allo specchio vecchio, la cornice sottile. Nellimmagine: un uomo con le tempie grigie, gli occhi un po stanchi, ma ancora robusto. Non un vecchio. Sistemò il colletto ed uscì.
Passò prima dal box, a prendere qualche attrezzo. Il lucchetto cigolò, la porta si aprì con lo sforzo di sempre. Dentro, odore di polvere, benzina e vecchi stracci. Sugli scaffali barattoli con dadi e bulloni, scatole di cavi, una vecchia cassetta col titolo scritto a pennarello. In alto ragnatele vecchie anni.
Giancarlo passò lo sguardo sugli scaffali. Ecco il cric, comprato per la sua prima macchina. Quelle tavolette ben impilate: voleva costruirci una panca per la casetta, non laveva mai fatto. Ma le tavole aspettavano.
Prese la cassetta degli attrezzi, qualche tanica, chiuse il box e partì.
Il tragitto fuori città durò circa unora. Ai lati delle strade, chiazze di neve sporca, lerba rispuntava qua e là. Nel piccolo borgo del consorzio era tutto calmo, troppo presto per la stagione dei rientri. Al cancello cera la signora Teresa, la custode, con il piumino, che lo salutò con un cenno.
La casa lo accolse con la solita immobilità fuori stagione. Recinzione di legno, cancellino un po storto. Lo aprì, passò lungo il vialetto stretto fino al portichetto. Le foglie secche dellautunno scricchiolavano sotto le scarpe.
Dentro, lodore di chiuso e di legno. Giancarlo spalancò le finestre per far aria. Scoprì il letto, scrollò la coperta. In cucina la pentola smaltata che un tempo usavano per fare la marmellata. Sul chiodo vicino alla porta, il mazzo di chiavi, tra cui quella della rimessa attrezzi.
Girò per casa, toccando i muri con la mano, le maniglie delle porte. Nella stanza dove dormivano i figli, ancora il letto a castello. Sopra, lorsacchiotto con un orecchio staccato. Giancarlo sorrideva ripensando a quando il figlio piccolo aveva pianto per quellorecchio, e lui niente colla laveva riattaccato con lo scotch.
Uscì in giardino. La neve era quasi sciolta, lorto, scuro e bagnato. In fondo al terreno, un barbecue arrugginito. Gli tornò in mente quando facevano le grigliate, lui e la moglie seduti in veranda a bere il tè nei bicchieri di vetro, ascoltando lo schiamazzo dei vicini.
Sospirò e si mise al lavoro. Pulì il vialetto dalle foglie, fissò una tavola che traballava sul portichetto, controllò il tetto della rimessa. Trovò una vecchia sedia di plastica, la portò in cortile e si sedette. Il sole si alzava, cominciava a scaldare.
Prese il telefono, scorse la lista delle chiamate. Il figlio aveva chiamato la sera prima. La figlia aveva mandato un messaggio su WhatsApp: Papà, dobbiamo parlarne insieme con calma. Non siamo contrari alla casetta, vogliamo solo ragionare bene.
Ragionare. Quella parola compariva sempre più spesso. Ragionevole: i soldi non devono restare fermi. Ragionevole: un uomo anziano non può farsi carico di terreno, box, lavori. Ragionevole: aiutare i giovani finché si è vivi.
Li capiva. Sì, li capiva veramente. Ma seduto lì, su quella sedia, ascoltando un cane abbaiare in lontananza, il rumore dellacqua che gocciolava dal tetto, ogni ragionamento perdeva importanza. Qui non cera spazio per i conti.
Giancarlo si alzò, fece un altro giro nel terreno, poi chiuse la casa, mise il grosso lucchetto alla porta, salì in macchina e tornò verso Modena.
A mezzogiorno era di nuovo a casa. Si tolse la giacca, appoggiò la borsa degli attrezzi in ingresso. In cucina mise a scaldare lacqua per il caffè e notò un biglietto. Breve, su un foglietto di quaderno: Papà, passiamo stasera a parlare. G. e E.
Si sedette, appoggiò le mani sul tavolo. Arrivava il momento, quello del discorso vero, senza battute.
La sera arrivarono in tre. Il figlio con la moglie e la figlia. Il nipotino era rimasto dai nonni materni. Giancarlo li fece entrare, li accolse in corridoio. Il figlio si tolse le scarpe e la giacca come faceva da bambino.
In cucina si sedettero. Giancarlo mise il tè, biscotti, caramelle. Nessuno toccò nulla. I primi minuti furono di chiacchiere: come sta il piccolo, come va il lavoro, il traffico in città.
Poi la figlia guardò il fratello, che annuì, e disse:
Papà, parliamone davvero. Non vogliamo metterti pressione, ma tutti dobbiamo decidere.
Giancarlo sentì un nodo allo stomaco. Annui:
Dite pure.
Cominciò il figlio:
Guarda, chai questo appartamento, la casetta in campagna e il box. Lappartamento, sia chiaro, non si tocca. Ma la casetta… Tu stesso dici che è faticosa da gestire. Lorto, il tetto, la recinzione. Ogni anno ci spendi dei soldi.
Oggi ci sono stato, rispose piano Giancarlo. Va tutto bene.
Adesso sì, intervenne la nuora. Ma poi? Fra cinque, dieci anni? Non sarai eterno, scusa, dobbiamo fare i conti anche con questo.
Giancarlo abbassò lo sguardo. Le parole sulla sua non-eternità facevano male, anche se non volevano ferirlo.
La figlia riprese, con voce più dolce:
Non vogliamo buttare via tutto. Semplicemente, si potrebbe vendere la casetta e il box, dividendo i soldi. Una parte a te, per vivere tranquillamente, una parte a noi due. Così possiamo chiudere un pezzo di mutuo. Tu hai sempre detto che volevi aiutarci.
Era vero. Laveva detto quando era appena in pensione e ancora lavoricchiava. Allora si sentiva forte, pensava di poter ancora dare una mano.
Vi aiuto già, replicò. Tengo il piccolo ogni tanto, vi faccio la spesa.
Il figlio scosse la testa, nervoso:
Papà, non è lo stesso. Ora ci serve davvero un po di soldi per respirare. Hai visto i tassi. Non è che ti chiediamo tutto. Ma certe proprietà restano ferme.
La parola proprietà aveva un suono estraneo in quella cucina. Giancarlo percepì come un muro invisibile, fatto di numeri, scadenze, mutui.
Si versò un sorso di tè, ormai freddo.
Per voi sono proprietà, disse lento. Per me sono
Cercava la parola giusta, senza retorica.
Sono pezzi di vita, mormorò. Il box lho costruito con papà. Lui era ancora vivo, portavamo i mattoni insieme. E la casetta Ci sono cresciuti i vostri figli. Voi.
La figlia abbassò gli occhi. Il figlio tacque, poi con voce più pacata disse:
Lo capiamo. Però ormai ci vai quasi mai. Lo vediamo. Resta tutto lì. Non ce la fai più da solo.
Oggi ci sono stato, ripeté Giancarlo. Tutto a posto.
Oggi, ribatté il figlio. E prima? Questo autunno? Papà, sul serio.
Cera silenzio. Dalla stanza accanto si sentiva il ticchettio dellorologio. Giancarlo visualizzò quella scena: loro seduti, parlavano di lui come di un progetto. Ottimizzazione spese, redistribuzione patrimoni.
Va bene, disse. Cosa avete in mente?
Il figlio si animò. Lavevano già discusso.
Abbiamo trovato unagenzia immobiliare. La casetta si vende bene. Il box lo vendiamo. Pensiamo a tutto noi, appuntamenti, documenti. Tu dovresti solo fare una delega.
E lappartamento? chiese Giancarlo.
Quello non si tocca, rispose la figlia rapida. È casa tua.
Annui. Ma casa che significava? Solo queste mura? O anche la casetta, il box dove aveva passato ore con suo padre e suo figlio, arrabbiandosi per un bullone bloccato ma sentendosi utile?
Si alzò e andò alla finestra. I lampioni si accendevano in cortile. Lo scenario era lo stesso di ventanni fa. Solo le macchine diverse, e i bambini coi telefonini.
E se non voglio vendere? chiese senza voltarsi.
Ancora più silenzio. Poi la figlia, con cautela:
Papà, è roba tua, decidi tu. Nessuno ti può costringere. Solo abbiamo paura. Anche tu ti lamenti che non hai più forza.
È vero, annuì. Ma ancora posso decidere cosa fare del mio tempo.
Il figlio sospirò:
Non vogliamo litigare. Però, da fuori, sembri attaccato alle cose, mentre noi siamo al limite. Sia coi soldi che di testa. Sempre col pensiero: se ti succede qualcosa, chi va su, chi gestisce?
Giancarlo provò una fitta di colpa. Era vero: aveva pensato pure lui a cosa sarebbe successo se fosse mancato di colpo. Loro sarebbero andati fra uffici, documenti, divisioni. Sarebbe stato pesante.
Tornò a sedersi.
E se iniziò titubante, se la casetta la intestassimo a voi, ma io continuo ad andarci finché posso?
Il figlio e la figlia si guardarono. La nuora si irrigidì.
Papà, ma allora il problema resta. Noi non riusciremmo ad andare spesso. Il lavoro, i bambini
Non vi chiedo di andare, spiegò. Ci vado io. Finché ce la faccio. Poi, farete voi.
Capiva che era un compromesso. Per sé, la possibilità di mantenere il legame con la casa; per loro, la sicurezza di avere già la proprietà, senza eventuali pratiche di successione.
La figlia rifletteva.
Può essere una soluzione, disse. Ma a essere onesti, noi là ci andremo raramente. Anzi, magari cambiamo città: io e Gabriele pensiamo di trasferirci dove laffitto costa meno e cè lavoro.
Giancarlo si irrigidì. Non lo sapeva. Anche il figlio rimase stupito.
Non me ne avevi parlato, disse al fratello.
Era solo unidea, lo buttò lì lei. Ma la casetta per noi non vuol dire quello che vuol dire a te. Non ci vediamo il futuro.
Ecco,futuro. Per loro il futuro era altrove: altri posti, altri progetti. Per lui, sempre più piccolo, racchiuso in quei pochi luoghi conosciuti.
Il rimpallo andò avanti ancora un po. Loro portavano cifre, lui ricordi. Loro su salute, lui su come sarebbe morto di noia senza quelle cose. A un certo punto il figlio, stanco, sbottò:
Papà, capisci che non puoi badare a tutto eterno. Un giorno non ci andrai proprio più. Cosa resta? Una rovina? Passiamo una volta lanno a guardare il disastro?
Giancarlo si sentì pungere.
Rovina? Per te è solo rovina? domandò. Ma lì ci correvi da piccolo.
Da piccolo. Ora ho altre priorità.
Silenzio ancora. La figlia cercò di rabbonirlo:
Smettila, dai
Ma ormai era chiaro: parlavano due lingue diverse. Per Giancarlo la casetta era vita. Per loro, passato.
Si alzò.
Facciamo così. Ci penso. Non oggi, non domani. Ho bisogno di tempo.
Papà, iniziò la figlia, anche noi non possiamo aspettare troppo. Abbiamo la rata il mese prossimo…
Capisco, la interruppe. Ma dovete capire anche voi. Non è come vendere un mobile.
Tacquero. Poi si alzarono e si prepararono. In ingresso armeggiarono con le scarpe. Alla fine la figlia lo abbracciò, gli posò la guancia sulla faccia.
Non siamo contro la casetta, davvero. Solo, abbiamo paura per te.
Annui, senza fidarsi della voce.
Dopo la porta, la casa sprofondò nel silenzio. Giancarlo andò in cucina, sedette. Le tazze mezze piene, i biscotti rimasti. Le guardò e sentì la stanchezza.
Rimase così a lungo, senza accendere la luce. Fuori calava la sera, si accendevano le finestre di fronte. Poi si alzò, andò a prendere nel mobile la cartelletta coi documenti. Carta didentità, rogiti della casetta e del box. Sfogliò, si fermò sulla pianta dellorto.
Un piccolo rettangolo, diviso in riquadri. Passò il dito sulle righe, come se accarezzasse i sentieri veri.
Il giorno dopo andò al box. Serviva muovere le mani. Dentro faceva freddo. Aprì bene il portone per far entrare la luce. Sistemò gli attrezzi, iniziò a buttare roba: ferraglia, bulloni arrugginiti, cavi nel dubbio.
Il vicino anziano, Augusto, sbirciò:
Ti liberi della roba vecchia?
Sì, metto in ordine, replicò Giancarlo. Cerco di capire cosa mi serve e cosa no.
Fai bene, annuì Augusto. Io lho venduto il box, soldi per la macchina di mio figlio. Adesso niente box, ma lui contento.
Giancarlo non disse nulla. Augusto tornò da lui, mentre lui restava assieme ai suoi oggetti e pensieri. Vendi, il figlio è contento. Come fosse una giacca.
Prese una chiave inglese pesante, lucida duso. La rigirò come se avesse ancora da stringere un bullone. Ricordò quando il figlio, ancora piccolo, voleva usare anche lui la chiave. Allora credeva che sarebbero rimasti sempre insieme. Ora quel linguaggio era scomparso per lui.
Quella sera riprese in mano i documenti. Alla fine chiamò la figlia.
Ho deciso, disse. Passiamo la casetta a voi due. Ma niente vendita ora. Io ci continuo ad andare finché riesco. Poi, fate voi.
Una pausa.
Sei sicuro? chiese lei piano.
Sì, mentì. Dentro non era sicuro. Si sentiva come se si privasse di qualcosa di fondamentale, ma non vedeva altra via.
Va bene, concluse la figlia. Vediamoci domani, studiamo come fare.
Riagganciò e si sedette di nuovo. Era silenzio. Provò un senso strano di sollievo, come se avesse preso una decisione che era comunque inevitabile.
Dopo una settimana andarono dal notaio. Fecero la donazione. Giancarlo firmava con la mano che tremava un poco. Il notaio spiegava con calma dove mettere la firma. I figli erano lì, a ringraziare.
Papà, grazie. Ci aiuti tanto, diceva il figlio.
Annuiva. Ma sentiva che non era solo lui a rendere facile la loro vita anche loro gli toglievano il peso del poi. Adesso il poi era scritto sulle carte.
Il box decise di tenerlo, almeno per il momento. I figli alludevano che si sarebbe potuto vendere anche quello, ma fu irremovibile. Gli serviva per non stare sempre in casa davanti alla TV. Lì capirono.
La vita, allapparenza, cambiò poco. Continuava a vivere nel suo appartamento, ogni tanto andava alla casetta, ora solo ospite in una casa che non era più sua. Ma aveva le chiavi e nessuno gli diceva niente.
Il primo giorno dopo il passaggio ci andò da solo, in una giornata tiepida di aprile. Pensò che ormai quella casa non era più sua. Una cosa altrui. Ma quando aprì il cancello, sentì scricchiolare la solita porta, vide il solito vialetto: la sensazione di estraneità scomparve.
Entrò, si tolse la giacca, la appese al solito chiodo. Dentro era tutto come sempre: il letto, il tavolo, lorsacchiotto con lo scotch.
Sedette allo sgabello sotto la finestra. Un raggio di sole illuminava la polvere sul bordo. Passò la mano sul legno, sentendo tutte le imperfezioni.
Pensò ai figli, alle loro vite piene di rate, progetti. Pensò a sé stesso, a come ormai ogni progetto era più una stagione che un anno. Arrivare alla prossima primavera, vangare di nuovo lorto, sedersi ancora unestate sul portichetto.
Sapeva che loro un giorno avrebbero venduto la casetta. Forse fra un anno, forse cinque. Quando lui non ce lavrebbe più fatta. Diranno che non ha senso tenere una casa vuota, e avranno ragione.
Ma adesso la casa cera. Il tetto resisteva. In rimessa le pale erano in ordine. Nellorto spuntavano i primi germogli. Poteva ancora camminare nel terreno, chinarsi, raccogliere la terra.
Fece un giro fuori, si fermò vicino al recinto. Nellorto dun vicino qualcuno piantava le prime piantine. Più in là, un lenzuolo steso sulle corde. La vita, normale.
Allimprovviso capì che la sua paura non era solo per la casa o il box. Temiva di diventare inutile. Di non servire né ai figli, né a se stesso. Quei luoghi erano la sua prova di esistenza. Poteva sistemare, scavare, pitturare.
Ora la prova era fragile. Le carte dicevano una cosa, le abitudini unaltra. Ma capì che non tutto si risolve nei documenti.
Prese dalla borsa il thermos, si versò il tè. Bevve un sorso, ascoltò se stesso. Unamarezza, sì, ma anche un po di pace. Aveva deciso. Pagato il prezzo. Aveva dato ai figli un pezzo di sé, ma aveva salvato qualcosa. Il diritto di stare lì non come proprietario, ma come memoria.
Guardò la porta, la serratura, la chiave in mano: una chiave vecchia, consumata. La rigirò, la strinse. Un giorno sarebbe passata al figlio o alla figlia, o magari a sconosciuti. Avrebbero usato quella chiave senza sapere tutto ciò che racchiudeva quel gesto.
Questo pensiero lo rese triste, ma anche quieto. Le cose cambiano, passano di mano. Limportante è vivere i propri luoghi finché si può, finché sono tuoi non secondo le carte, ma nel cuore.
Finì il tè, si alzò. Andò in rimessa a prendere la vanga. Doveva almeno lavorare una parcella dellorto. Per sé, non per futuri proprietari, non per figli che magari già pensavano ai conti. Per sé, per sentire la terra.
Affondò la vanga nel terreno, spinse col piede. La terra si aprì. Il primo zolla si rivoltò, mostrando il nero umido sotto. Giancarlo inspirò quellodore, si chinò ancora.
Il lavoro era lento, la schiena doleva, le mani stanche. Ma ogni colpo toglieva un poco del peso dentro. Come se oltre alla terra dissotterrasse paure.
Sul finire del giorno si sedette sul portichetto, si asciugò la fronte. Nellorto le zolle rigirate, lombra della sera. Da lontano un uccello lanciava un grido.
Guardò la casa, le orme nel terreno, la vanga appoggiata al muro. Pensò al domani, al prossimo anno, ai prossimi cinque. Nessuna risposta. Ma sapeva che in quel momento era dove doveva stare.
Si alzò, rientrò, spense la luce, chiuse le porte. Sul portichetto si fermò ancora un attimo ad ascoltare il silenzio. Poi girò la chiave nella serratura. Il metallo fece clic.
Giancarlo mise la chiave in tasca e tornò verso la macchina, avanzando sul sentiero, facendo attenzione a non calpestare la terra appena lavorata.






