Una casa senza padrone Sergio si svegliò, come sempre, prima della sveglia, alle sei e mezza. Nell’appartamento regnava silenzio, solo il frigorifero ronzava piano in cucina. Rimase a letto ancora un po’, ascoltando quel suono, poi allungò la mano verso il davanzale a cercare gli occhiali. Fuori era ancora grigio, poche auto scivolavano silenziose sull’asfalto bagnato. Un tempo, a quest’ora, si preparava per andare al lavoro. Si alzava, andava in bagno, sentiva il vicino che accendeva la radio attraverso il muro. Ora il vicino la radio la accendeva sempre, ma lui rimaneva a letto a pensare a cosa avrebbe fatto in giornata. Formalmente era in pensione già da tre anni, ma continuava a vivere seguendo la vecchia routine. Si alzò, indossò i pantaloni della tuta e andò in cucina. Mise su il bollitore, prese una fetta del filone avanzato dalla sera prima. Mentre l’acqua si scaldava, si avvicinò alla finestra. Settimo piano, palazzina popolare, il cortile con l’altalena e lo scivolo. Giù sotto, sotto le sue finestre, c’era la sua vecchia Panda 4×4, ricoperta da uno strato sottile di polvere. Pensò che sarebbe stato il caso di passare dal garage, controllare se il tetto aveva tenuto. Il garage era nel complesso al terzo capolinea del bus. Un tempo ci trascorreva metà dei weekend: sistemava la macchina, cambiava l’olio, chiacchierava con gli altri dei prezzi della benzina o del campionato. Poi tutto era diventato più facile: officina, gommista, negozio online. Eppure il garage non l’aveva mai lasciato. Lì c’erano i suoi attrezzi, le gomme vecchie, scatoloni di cavi elettrici e assi — “roba da tenere”, come diceva lui. E la casa di campagna. Una piccola villetta nel consorzio degli orti dietro la città. Casetta di legno, veranda stretta, due stanzette e una micro cucina. Chiudendo gli occhi si vedevano le assi consunte, le crepe sul pavimento, il rumore della pioggia sul tetto. La villetta era stata un tempo dei genitori della moglie. Più di vent’anni fa, ogni weekend ci andavano coi figli. Zappavano nell’orto, friggevano patate, mettevano il mangianastri sullo sgabello. La moglie non c’era più da quattro anni. I figli erano cresciuti, ognuno con la propria casa, la propria famiglia. Ma la villetta e il garage erano rimasti a lui. Come punti fissi, a tenerlo saldo. Ecco l’appartamento. Ecco la villetta. Ecco il garage. Tutto al suo posto. Il bollitore fischiò. Sergio si preparò il tè e si sedette al tavolo. Sulla sedia di fronte era piegito il maglione indossato il giorno prima. Mangiava il pane col prosciutto e pensava alla discussione della sera passata. La sera prima erano venuti i figli. Il figlio con la moglie e il nipotino, la figlia col marito. Hanno preso il tè, parlato delle ferie cui pensavano. Poi la conversazione è andata a finire, come sempre, su soldi. Il figlio si lamentava del mutuo, della rata in aumento. La figlia diceva che l’asilo costava tanto, con tutte le attività e i vestiti. Sergio annuiva; ricordava anche lui i tempi in cui faceva i conti fino a fine mese. Ma allora non c’erano né villetta né garage. Solo una stanza in affitto e la speranza. Poi il figlio, tutto impacciato, aveva detto: — Papà, noi e anche Chiara pensavamo… forse dovresti vendere qualcosa. Magari la villetta. O il garage. Tanto ormai quasi non ci vai… Sergio aveva buttato la cosa sul ridere, poi però, quella notte, aveva girato e rigirato in testa quel “ormai non ci vai”. Finito di fare colazione, riordinò la tazza nel lavello. Guardò l’ora. Erano le otto. Decise che sarebbe andato in campagna. Avrebbe controllato la situazione dopo l’inverno. E, magari, avrebbe anche dimostrato qualcosa a se stesso. Si vestì, prese i mazzi di chiavi dal corridoio e se li mise in tasca. Davanti allo specchio, vide riflesso un uomo coi capelli striati di grigio, gli occhi un po’ stanchi, ma ancora robusto. Non un vecchio. Sistemò il colletto e uscì. Fece una sosta al garage, dove prese un paio di attrezzi. Il lucchetto cigolò, la porta si aprì col solito sforzo. Dentro odorava di polvere, benzina e strofinacci vecchi. Sui ripiani barattoli pieni di bulloni, scatole di cavi, una vecchia cassetta con l’etichetta sbiadita. In alto, ragnatele. Sergio scorse le cose sulle mensole. Il cric della prima macchina. Le assi di legno che aveva comprato per fare una panca, poi mai fatta. Ma erano lì, ad aspettare. Prese la cassetta degli attrezzi, alcune taniche di plastica, chiuse il garage e ripartì. Il viaggio fuori città durò quasi un’ora. Ai lati della strada la neve era ancora sporca, qua e là si vedeva la terra. Nel consorzio era tutto tranquillo. Ancora presto perché arrivassero in massa. Alla sbarra c’era la custode in piumino, lui la salutò con un cenno. La villetta lo accolse immobile, come sempre tra una stagione e l’altra. La staccionata di legno scrostata, il cancelletto che si era storto. Lo aprì, seguì il viottolo fino alla veranda. Sotto i piedi crocchiavano le foglie dell’anno prima. Dentro odorava di chiuso e legno. Sergio aprì le finestre, tolse la coperta dal letto e la scosse. In cucina la vecchia pentola smaltata sul tavolo, quella dei composti di frutta d’estate. Sull’attaccapanni vicino alla porta, il mazzo delle chiavi del capanno. Camminava per la casa, toccando muri, maniglie. Nella stanza dei figli c’era ancora il letto a castello. Sulla mensola in alto, un orsetto di peluche senza un’orecchia. Sergio ricordava suo figlio che piangeva per quell’orecchio, e lui, non trovando colla, l’aveva fissato col nastro isolante. Si mise a sistemare; spazzò il vialetto dalle foglie, fissò la tavola traballante della veranda, controllò il tetto del capanno. Nel capanno trovò una vecchia seggiolina di plastica, la portò fuori e si sedette. Il sole era già alto, faceva più caldo. Prese il cellulare e guardò la lista delle chiamate. Suo figlio aveva chiamato la sera prima. La figlia aveva scritto che bisognava parlare con calma e “ragionare insieme”. «Non siamo contro la villetta, papà. Solo, pensiamoci in modo razionale», diceva il messaggio. Razionale. Questa parola la sentiva ormai quasi ogni settimana. Razionale — cioè non tenere soldi eccessivi fermi. Razionale — cioè un uomo anziano non deve stancarsi con orti e garage. Razionale — cioè aiutare i giovani, finché si è in vita. Li capiva. Davvero li capiva. Ma seduto lì, sulla seggiolina, ad ascoltare lontani latrati di cane e le gocce che cadevano dal tetto, tutta quella razionalità gli sembrava solo teoria. Qui non c’entrava il calcolo. Sergio si rimise a girare per il giardinetto, poi chiuse la casa, agganciò il pesante lucchetto e si rimise in viaggio per tornare a Milano. A pranzo era già a casa. Appese la giacca, posò la borsa degli attrezzi. In cucina mise il bollitore sul fuoco e solo allora vide il biglietto. Breve, su un foglietto della figlia: «Papà, stasera passiamo a parlare. C.» Si sedette, le mani sul tavolo. Quindi sarebbe stato quella sera. Avrebbero davvero parlato, senza più scherzare. Quella sera arrivarono loro tre: il figlio con la moglie e la figlia. Il nipote era rimasto dalla suocera. Sergio aprì, salutò, li fece entrare. Il figlio si tolse le scarpe e la giacca come faceva da bambino. In cucina si sedettero al tavolo. Sergio mise su tè, biscotti, caramelle. Nessuno toccò nulla. Per alcuni minuti parlarono di niente: il nipote, il lavoro, il traffico cittadino. Poi la figlia guardò il fratello, lui annuì, e disse: — Papà, parliamone davvero. Non vogliamo metterti pressione, ma… dobbiamo capirci, tutti. Sergio sentì un nodo alla gola. Annuì: — Dite pure. Il figlio prese la parola: — Hai l’appartamento, la villetta e il garage. L’appartamento è sacro, nessuno ne parla. Ma la villetta… Dici tu stesso che è faticoso. L’orto, il tetto, lo steccato. Ogni anno devi spenderci sopra. — Oggi ci sono stato, — mormorò Sergio. — Tutto ok. — Oggi sì, — si inserì la nuora. — Ma tra cinque, dieci anni? Non sarai eterno. Scusa se te lo dico, ma dobbiamo pensarci. Sergio abbassò lo sguardo. L’idea di non essere eterno era dolorosa, anche se la nuora non voleva ferirlo. La figlia prese un tono più dolce: — Non diciamo che devi sbarazzarti di tutto. Pensiamo solo che potresti vendere villetta e garage, dividere i soldi. Una parte resterebbe a te, il resto a noi e a Gianni. Così chiudiamo un po’ di mutuo. Tu stesso dici sempre che vuoi aiutarci. Ed era vero. Lo aveva promesso, in pensione, quando si sentiva ancora forte. Allora era convinto che avrebbe potuto lavorare, anche dopo. — Ma vi aiuto già, — disse. — Tengo il piccolo, vi compro delle cose. Il figlio sorrise con amarezza: — Papà, non è la stessa cosa. Abbiamo bisogno di una bella somma, adesso. Hai visto anche tu le rate. Non diciamo di prenderci tutto. Solo…ci sono immobili che ormai stanno lì. Quel termine, “immobili”, sembrò estraneo in quella cucina. Sergio percepì come una barriera invisibile davanti a loro fatta di numeri e mutui. Bevve un sorso di tè ormai freddo. — Per voi sono immobili, — disse piano. — Per me sono… Tacque, in cerca della parola giusta. Non voleva sembrare retorico. — Pezzi di vita, — concluse. — Il garage l’ho costruito io stesso, con mio padre. Lui c’era ancora. La villetta… là siete cresciuti voi. La figlia abbassò gli occhi. Il figlio rimase zitto, poi disse con più delicatezza: — Lo sappiamo, davvero. Ma quasi non ci vai più. Si vede chiaramente. Resta tutto fermo. Da solo non ce la farai più. — Oggi ci sono stato, — ripeté Sergio. — Tutto in regola. — Oggi, — disse il figlio. — Ma prima? In autunno? Papà, sii serio. Silenzio. Sergio sentì il ticchettio dell’orologio nella stanza accanto. Immaginò la scena da fuori: loro seduti a discutere della sua vecchiaia come di un dossier. Ottimizzazione delle spese, risorse. — Va bene, — disse. — Che proponete esattamente? Il figlio si animò. Era evidente che tra fratelli avevano già deciso. — Abbiamo pure trovato l’agenzia. Ci dicono che la villetta vale bene. Il garage anche. Prendiamo in mano tutto: visite, documenti. Tu devi solo firmare una procura. — E l’appartamento? — chiese Sergio. — L’appartamento non si tocca, — rispose rapida la figlia. — È casa tua. Annuii. Casa — che parola strana, pensò. Casa sono solo queste mura? O vale anche la villetta? E il garage, che in fondo era stato il suo mondo per tanti anni? Si alzò, andò alla finestra. Giù nel cortile i lampioni si erano appena accesi. Tutto era come vent’anni prima. Cambiavano solo le auto e i bambini giocavano col cellulare. — E se non voglio vendere? — chiese, senza voltarsi. Il silenzio calò ancora più fitto. Poi la figlia: — Papà, è tuo tutto. Scegli tu. Nessuno ti obbliga. Solo… siamo preoccupati. Dici anche tu che fatichi di più. — Più fatica sì, — concesse. — Ma posso ancora scegliere da solo cosa fare. Il figlio sospirò: — Non ci vogliamo litigare. Ma sembra che tu ti attacchi alle cose, e noi intanto soffriamo. Sia come rate, sia come pensiero. Abbiamo paura: se ti ammali? Chi ci va in campagna, chi sistema tutto? Sergio si sentì in colpa. Anche lui, in fondo, ci pensava. Se venisse a mancare di colpo, i figli si sarebbero ritrovati a gestire eredità, carte, divisioni. Un peso vero per loro. Si risiedette. — E se… — abbozzò, — intestassi la villetta a voi due? Io ci andrei finché me la sento, poi fate voi. Il figlio e la figlia si guardarono. La nuora si rabbuiò. — Papà, — replicò lei, — ma allora resta comunque un problema. Noi non potremmo andarci quanto tu vuoi. Abbiamo lavoro, bambini… — Non vi chiedo di andarci. Faccio da me, finché posso. Dopo, decidete. Capiva bene che era un compromesso. Per sé — mantenere un posto che per lui era più di un terreno. Per loro — la certezza che sarebbe stata roba loro già in vita, senza rogne di successione. La figlia rifletté. — Potrebbe andare, — disse. — Ma diciamoci la verità: non ci vivremo. Abbiamo altri progetti. Io e Marco pensiamo di traslocare fuori città, lì costa meno. Sergio quasi trasalì. Non sapeva nulla. Anche il figlio aprì gli occhi sorpreso. — Non me l’avevi detto, — fece. — Sono solo idee… Comunque. La villetta per noi non conta come per te. Non ci vediamo futuro. Prese la parola “futuro”. Per loro il futuro era altrove. Per lui era rimpicciolito a pochi punti: l’appartamento, il garage, la villetta. Posti conosciuti a memoria. Si andarono avanti così ancora una ventina di minuti. Loro portavano cifre, lui ricordi. Loro parlavano di salute, lui di attività da non perdere. A un certo punto, stanco, il figlio sbottò: — Papà, capiscilo: non potrai zappare per sempre. Verrà il giorno che non ci andrai più. E poi? Tutto marcirà? Noi ci andremo solo a vedere il rudere una volta l’anno? Sergio sentì salire la rabbia. — Per te sarebbe solo un rudere? — chiese. — Da piccolo ci correvi sulle “rovine”. — Ero piccolo, — rispose il figlio. — Ora ho altro a cui pensare. La figlia provò ad ammorbidirlo: — Gianni… Ma era già tardi. Sergio se ne rese conto: parlavano due lingue diverse. Per lui la campagna era vita. Per loro, un ricordo. Si alzò. — Facciamo così. Ci penso. Non oggi, non domani. Ho bisogno di tempo. — Papà, — riprese la figlia, — anche noi non possiamo aspettare troppo. Il prossimo mese c’è il pagamento… — Capisco, — la interruppe. — Ma non è come vendere un armadio. Non dissero altro. Si prepararono a tornare. Nell’ingresso ci misero un po’ con le scarpe. Prima di uscire, la figlia lo abbracciò. — Non siamo contro la villetta, papà, — sussurrò. — Solo, abbiamo paura per te. Sergio annuì, senza fiato. Richiusa la porta, la casa fu travolta dal silenzio. Sergio si sedette in cucina. Guardava le tazze, i biscotti rimasti. Sentì una stanchezza tremenda. Rimase lì, al buio. Fuori le finestre si illuminavano una a una. Dopo un po’ si alzò, prese dal mobile la cartella coi documenti. Passaporto, atti della villetta e del garage. Sfogliò, si fermò alla piantina dell’orto. Un piccolo quadrato, grigliato dai rettangoli delle aiuole. Seguì col dito, come a ripercorrere i vialetti veri. Il giorno dopo andò in garage. Aveva bisogno di fare qualcosa con le mani. Dentro faceva fresco. Aprì il portone, fece entrare luce. Sistemò gli attrezzi, scartabellò nelle scatole. Parte del vecchiume decise di buttarlo: pezzi inutili, bulloni arrugginiti, fili che aveva tenuto “per sicurezza”. Il vicino, Giulio, passò a salutarlo: — Butti il vecchiume? — Metto in ordine, — rispose Sergio. — Mi chiedo cosa mi serva ancora, e cosa no. — Fai bene, — disse Giulio. — Io il garage l’ho venduto. Al figlio servivano soldi per la macchina nuova. Ora sono senza garage, ma lui contento. Sergio non replicò. Giulio tornò da lui, Sergio rimase con le sue scatole e i suoi pensieri. Venduto — figlio contento. Come se fosse una vecchia giacca. Prese una chiave inglese, pesante da quanto era usata. La rigirò in mano. Ricordò il figlio piccolo, che voleva provarla anche lui. Allora Sergio era sicuro che sarebbero rimasti sempre così, insieme. Casa, garage, macchina: un linguaggio comune. Ora quelle cose per il figlio erano diventate straniere. La sera riprese in mano i documenti. Rimase molto a pensare, poi chiamò la figlia. — Ho deciso, — disse. — La villetta la intesterete a voi due. Ma non si vende. Ci vado finché voglio. Poi scegliete voi. Dall’altro lato silenzio. — Sei sicuro, papà? — Sì, — anche se dentro di sé non lo era molto. Sentiva di tagliarsi via qualcosa. Ma non c’era alternativa. — D’accordo. Vediamoci domani, parliamo con calma. Riagganciò. Silenzio. Sentiva, oltre la stanchezza, un sollievo strano. Aveva preso una decisione ineluttabile. In una settimana, firmarono dal notaio il passaggio di proprietà. Sergio firmava con la mano un po’ tremante. Il notaio spiegava pacato. I figli ringraziavano. — Grazie, papà. Ci aiuti davvero, — diceva il figlio. Sergio annuiva, ma sapeva che non stava aiutando solo loro. Lo stavano aiutando anche loro, separandolo dal pensiero dell’ “e dopo?”. Ora il dopo era nero su bianco. Il garage se lo tenne ancora. I figli ci provarono: “che ne dici se lo vendiamo anche quello?” Ma lui fu irremovibile. Gli serviva per non stare in casa a guardare la tv. Questo lo capirono. Fuori, la vita non cambiò molto. Viveva sempre nell’appartamento, andava talvolta ancora in campagna, ora come ospite nella villetta che formalmente non era più sua. Ma aveva le chiavi, nessuno gli metteva ostacoli. La prima volta dopo il passaggio ci andò da solo, in un pomeriggio già caldo di aprile. Pensava: ormai quella casa non è più mia. È roba d’altri. Ma appena aprì il cancelletto, sentì scricchiolare il viottolo noto, la sensazione sparì. Entrò, tolse la giacca, la appese. Tutto era come sempre: il letto, il tavolo, l’orsetto col nastro all’orecchio. Si sedette sullo sgabello, il sole che batteva sul davanzale, la polvere illuminata. Passò la mano sul legno, sentiva ogni irregolarità. Pensava ai figli. Alle loro rate, ai programmi, ai pensieri lontani. E a sé, coi suoi piani ormai corti come le stagioni. Arrivare alla primavera dopo, lavorare un’altra volta l’orto, sedersi un’altra estate sulla veranda. Sapeva che, prima o poi, avrebbero venduto la villetta. Forse tra un anno, cinque. Quando non riuscirà più ad andare. Diranno che è inutile tenere una casa vuota. E avranno le loro buone ragioni. Ma ora la villetta era lì. Il tetto reggeva. Nel capanno c’erano ancora le zappe. Sull’orto spuntavano i primi germogli. Sergio poteva ancora girare tra i filari, abbassarsi, scavare. Uscì fuori, girò intorno alla casa. Si fermò alla staccionata, guardò i vicini: su un orto una signora già piantava i pomodori, sull’altro si stendeva il bucato. La vita continuava. Ecco, pensò: la vera paura non è per la villetta o il garage. Era la paura di diventare superfluo. Non servire più a nessuno, nemmeno a sé. Quei posti erano la prova che ancora contava qualcosa. Che poteva aggiustare, dipingere, coltivare. Ora quella prova era fragile. I documenti dicevano una cosa, le abitudini un’altra. Ma, seduto sulla veranda, capì che non tutto dipende dalle carte. Prese il thermos, versò il tè nella tazza. Bevve. Dentro sentiva amarezza, ma meno di quella sera in cucina. La decisione era presa, il prezzo era noto. Aveva dato ai figli una parte di sé, ma aveva in cambio ancora qualcosa: il diritto di esserci, non per atto notarile, ma per memoria. Guardò la porta, la serratura, la chiave nella mano. Era vecchia, rovinata. La strinse. Un giorno sarebbe stata in mano al figlio, alla figlia, o a qualche sconosciuto che l’avrebbe comprata. Avrebbero girato la chiave senza sapere quanta vita c’era dietro quel gesto. Gli venne tristezza, ma anche una pace strana. Il mondo passa di mano in mano. Bisogna viverlo, il proprio posto, finché lo si sente proprio, anche solo dentro. Sergio finì il tè e si alzò. Andò nel capanno a prendere la zappa. Almeno un’aiuola avrebbe voluto vangarla. Per sé. Non per i futuri padroni, non per i figli intenti coi conti. Per sé, per sentire la terra sotto i piedi e tra le dita. Premette il piede sulla lama, la terra si aprì, umida. Inspirò il profumo, ripeté il gesto. Il lavoro era lento. La schiena faceva male, le braccia si stancavano. Ma ogni colpo gli portava più sollievo. Come se zappasse via anche la paura. Verso sera sedette sulla veranda, asciugò la fronte. Nell’orto c’erano file ordinate di zolle. Il cielo tendeva al rosa. Da lontano gridava un uccello. Guardò la casetta, le sue orme sulla terra, la zappa appoggiata al muro. Pensò al domani, all’anno dopo, ai cinque anni. Nessuna risposta. Ma sentiva, adesso, di essere ancora nel suo posto. Si alzò, entrò, spense la luce, chiuse la porta. Sulla veranda sostò un attimo, ascoltando il silenzio. Poi girò la chiave nella serratura con un piccolo scatto. Sergio mise la chiave in tasca e si avviò verso la macchina, seguendo il viottolo, evitando di calpestare la terra appena lavorata.

Una casa di nessuno

Giancarlo si svegliò senza bisogno della sveglia, come sempre, alle sei e mezza. In appartamento regnava il silenzio, solo il frigorifero borbottava piano dalla cucina. Rimase sdraiato un momento, ascoltando quel rumore familiare, poi allungò la mano verso gli occhiali posati sul davanzale. Fuori albeggiava, rare automobili passavano lente sullasfalto bagnato.

Un tempo a quellora si preparava per andare al lavoro: si alzava, andava al bagno, ascoltava il vicino che accendeva la radio oltre la parete. Ora la radio del vicino cera ancora, ma Giancarlo restava a letto, a domandarsi come avrebbe impiegato la giornata. Tecnicamente era in pensione già da tre anni, ma per abitudine continuava a vivere seguendo un suo ritmo.

Si alzò, si mise i pantaloni della tuta, andò in cucina. Mise su la moka, estrasse dalla cesta il pane avanzato dal giorno prima. Mentre lacqua si scaldava, andò alla finestra. Settimo piano, palazzina anni Settanta, cortile con la piccola area giochi. Sotto casa, la sua vecchia Fiat Panda, coperta da un sottile strato di polvere. Istintivamente, pensò che sarebbe stato il caso di passare dal box auto a controllare se il tetto perdeva.

Il box, comprato con la cooperativa, era a tre fermate di autobus. Un tempo ci passava metà dei fine settimana, armeggiando con la macchina, cambiando lolio, chiacchierando con i vicini di calcio e prezzi della benzina. Le cose poi si erano fatte più facili: officina, gommista, una telefonata e risolvevi. Ma il box non lo aveva mai mollato. Lì erano riposti gli attrezzi, le gomme da neve vecchie, scatole di cavi e tavole, roba che non si sa mai, come diceva lui.

E poi cera la casa in campagna. Una casetta al confine tra il Mantovano e il Reggiano, con portichetto stretto, due stanze e una cucinetta minuscola. Quando chiudeva gli occhi, vedeva quelle assi di legno, le crepe nel pavimento, sentiva la pioggia battere sul tetto. La casa era arrivata anni prima dalla famiglia di sua moglie. Più di ventanni fa ci andavano quasi ogni fine settimana con i figli piccoli: vangavano lorto, friggevano patate, mettevano la radio sulle sedie di plastica.

La moglie non cera più da quattro anni. I figli erano cresciuti, ognuno nella sua vita, nelle rispettive case. Restavano la casa in città, la casa in campagna, il box. Come se quei luoghi tenessero Giancarlo ancorato a una sorta di coordinate rassicuranti. Ecco lappartamento. Ecco la casetta in campagna. Ecco il box. Tutto al proprio posto, tutto comprensibile.

La moka borbottò. Giancarlo preparò il caffè, si mise a tavola. Sulla sedia di fronte cera il maglione piegato dal giorno prima. Mangiava il pane col formaggio, guardando il maglione e ripensando alla conversazione della sera precedente.

Ieri i figli erano passati a trovarlo. Il figlio con la moglie e il bambino, il nipote. La figlia con il marito. Avevano bevuto il tè, parlando di vacanze estive, poi il discorso era scivolato, come sempre più spesso, sulle questioni di soldi.

Il figlio diceva che il mutuo pesava, le rate salivano. La figlia si lamentava: lasilo del piccolo costava tanto e poi cerano i corsi, i vestiti. Giancarlo annuiva: ricordava bene anche lui quando contava i centesimi fino alla paga. Ma allora non aveva né il box né la casa in campagna. Solo una stanza in affitto e tante speranze.

Poi, con una certa esitazione, il figlio aveva detto:

Papà, ne parlavamo con Martina e anche con Elena. Magari potresti vendere qualcosa tipo la casetta in campagna o il box. Tanto ormai ci vai poco.

Giancarlo aveva buttato là una battuta, aveva cambiato argomento. Ma la notte non aveva dormito: quella frase, ci vai poco, non gli usciva dalla testa.

Finì il pane, bevve il caffè, mise la tazza nel lavello. Guardò lorologio. Erano le otto. Decise che sarebbe andato a vedere la casetta. Meglio dare unocchiata dopo linverno. E, magari, dimostrare qualcosa almeno a se stesso.

Si vestì pesante, prese dallingresso le chiavi della casetta e del box, se le infilò nella tasca del giaccone. Nel corridoio si soffermò davanti allo specchio vecchio, la cornice sottile. Nellimmagine: un uomo con le tempie grigie, gli occhi un po stanchi, ma ancora robusto. Non un vecchio. Sistemò il colletto ed uscì.

Passò prima dal box, a prendere qualche attrezzo. Il lucchetto cigolò, la porta si aprì con lo sforzo di sempre. Dentro, odore di polvere, benzina e vecchi stracci. Sugli scaffali barattoli con dadi e bulloni, scatole di cavi, una vecchia cassetta col titolo scritto a pennarello. In alto ragnatele vecchie anni.

Giancarlo passò lo sguardo sugli scaffali. Ecco il cric, comprato per la sua prima macchina. Quelle tavolette ben impilate: voleva costruirci una panca per la casetta, non laveva mai fatto. Ma le tavole aspettavano.

Prese la cassetta degli attrezzi, qualche tanica, chiuse il box e partì.

Il tragitto fuori città durò circa unora. Ai lati delle strade, chiazze di neve sporca, lerba rispuntava qua e là. Nel piccolo borgo del consorzio era tutto calmo, troppo presto per la stagione dei rientri. Al cancello cera la signora Teresa, la custode, con il piumino, che lo salutò con un cenno.

La casa lo accolse con la solita immobilità fuori stagione. Recinzione di legno, cancellino un po storto. Lo aprì, passò lungo il vialetto stretto fino al portichetto. Le foglie secche dellautunno scricchiolavano sotto le scarpe.

Dentro, lodore di chiuso e di legno. Giancarlo spalancò le finestre per far aria. Scoprì il letto, scrollò la coperta. In cucina la pentola smaltata che un tempo usavano per fare la marmellata. Sul chiodo vicino alla porta, il mazzo di chiavi, tra cui quella della rimessa attrezzi.

Girò per casa, toccando i muri con la mano, le maniglie delle porte. Nella stanza dove dormivano i figli, ancora il letto a castello. Sopra, lorsacchiotto con un orecchio staccato. Giancarlo sorrideva ripensando a quando il figlio piccolo aveva pianto per quellorecchio, e lui niente colla laveva riattaccato con lo scotch.

Uscì in giardino. La neve era quasi sciolta, lorto, scuro e bagnato. In fondo al terreno, un barbecue arrugginito. Gli tornò in mente quando facevano le grigliate, lui e la moglie seduti in veranda a bere il tè nei bicchieri di vetro, ascoltando lo schiamazzo dei vicini.

Sospirò e si mise al lavoro. Pulì il vialetto dalle foglie, fissò una tavola che traballava sul portichetto, controllò il tetto della rimessa. Trovò una vecchia sedia di plastica, la portò in cortile e si sedette. Il sole si alzava, cominciava a scaldare.

Prese il telefono, scorse la lista delle chiamate. Il figlio aveva chiamato la sera prima. La figlia aveva mandato un messaggio su WhatsApp: Papà, dobbiamo parlarne insieme con calma. Non siamo contrari alla casetta, vogliamo solo ragionare bene.

Ragionare. Quella parola compariva sempre più spesso. Ragionevole: i soldi non devono restare fermi. Ragionevole: un uomo anziano non può farsi carico di terreno, box, lavori. Ragionevole: aiutare i giovani finché si è vivi.

Li capiva. Sì, li capiva veramente. Ma seduto lì, su quella sedia, ascoltando un cane abbaiare in lontananza, il rumore dellacqua che gocciolava dal tetto, ogni ragionamento perdeva importanza. Qui non cera spazio per i conti.

Giancarlo si alzò, fece un altro giro nel terreno, poi chiuse la casa, mise il grosso lucchetto alla porta, salì in macchina e tornò verso Modena.

A mezzogiorno era di nuovo a casa. Si tolse la giacca, appoggiò la borsa degli attrezzi in ingresso. In cucina mise a scaldare lacqua per il caffè e notò un biglietto. Breve, su un foglietto di quaderno: Papà, passiamo stasera a parlare. G. e E.

Si sedette, appoggiò le mani sul tavolo. Arrivava il momento, quello del discorso vero, senza battute.

La sera arrivarono in tre. Il figlio con la moglie e la figlia. Il nipotino era rimasto dai nonni materni. Giancarlo li fece entrare, li accolse in corridoio. Il figlio si tolse le scarpe e la giacca come faceva da bambino.

In cucina si sedettero. Giancarlo mise il tè, biscotti, caramelle. Nessuno toccò nulla. I primi minuti furono di chiacchiere: come sta il piccolo, come va il lavoro, il traffico in città.

Poi la figlia guardò il fratello, che annuì, e disse:

Papà, parliamone davvero. Non vogliamo metterti pressione, ma tutti dobbiamo decidere.

Giancarlo sentì un nodo allo stomaco. Annui:

Dite pure.

Cominciò il figlio:

Guarda, chai questo appartamento, la casetta in campagna e il box. Lappartamento, sia chiaro, non si tocca. Ma la casetta… Tu stesso dici che è faticosa da gestire. Lorto, il tetto, la recinzione. Ogni anno ci spendi dei soldi.

Oggi ci sono stato, rispose piano Giancarlo. Va tutto bene.

Adesso sì, intervenne la nuora. Ma poi? Fra cinque, dieci anni? Non sarai eterno, scusa, dobbiamo fare i conti anche con questo.

Giancarlo abbassò lo sguardo. Le parole sulla sua non-eternità facevano male, anche se non volevano ferirlo.

La figlia riprese, con voce più dolce:

Non vogliamo buttare via tutto. Semplicemente, si potrebbe vendere la casetta e il box, dividendo i soldi. Una parte a te, per vivere tranquillamente, una parte a noi due. Così possiamo chiudere un pezzo di mutuo. Tu hai sempre detto che volevi aiutarci.

Era vero. Laveva detto quando era appena in pensione e ancora lavoricchiava. Allora si sentiva forte, pensava di poter ancora dare una mano.

Vi aiuto già, replicò. Tengo il piccolo ogni tanto, vi faccio la spesa.

Il figlio scosse la testa, nervoso:

Papà, non è lo stesso. Ora ci serve davvero un po di soldi per respirare. Hai visto i tassi. Non è che ti chiediamo tutto. Ma certe proprietà restano ferme.

La parola proprietà aveva un suono estraneo in quella cucina. Giancarlo percepì come un muro invisibile, fatto di numeri, scadenze, mutui.

Si versò un sorso di tè, ormai freddo.

Per voi sono proprietà, disse lento. Per me sono

Cercava la parola giusta, senza retorica.

Sono pezzi di vita, mormorò. Il box lho costruito con papà. Lui era ancora vivo, portavamo i mattoni insieme. E la casetta Ci sono cresciuti i vostri figli. Voi.

La figlia abbassò gli occhi. Il figlio tacque, poi con voce più pacata disse:

Lo capiamo. Però ormai ci vai quasi mai. Lo vediamo. Resta tutto lì. Non ce la fai più da solo.

Oggi ci sono stato, ripeté Giancarlo. Tutto a posto.

Oggi, ribatté il figlio. E prima? Questo autunno? Papà, sul serio.

Cera silenzio. Dalla stanza accanto si sentiva il ticchettio dellorologio. Giancarlo visualizzò quella scena: loro seduti, parlavano di lui come di un progetto. Ottimizzazione spese, redistribuzione patrimoni.

Va bene, disse. Cosa avete in mente?

Il figlio si animò. Lavevano già discusso.

Abbiamo trovato unagenzia immobiliare. La casetta si vende bene. Il box lo vendiamo. Pensiamo a tutto noi, appuntamenti, documenti. Tu dovresti solo fare una delega.

E lappartamento? chiese Giancarlo.

Quello non si tocca, rispose la figlia rapida. È casa tua.

Annui. Ma casa che significava? Solo queste mura? O anche la casetta, il box dove aveva passato ore con suo padre e suo figlio, arrabbiandosi per un bullone bloccato ma sentendosi utile?

Si alzò e andò alla finestra. I lampioni si accendevano in cortile. Lo scenario era lo stesso di ventanni fa. Solo le macchine diverse, e i bambini coi telefonini.

E se non voglio vendere? chiese senza voltarsi.

Ancora più silenzio. Poi la figlia, con cautela:

Papà, è roba tua, decidi tu. Nessuno ti può costringere. Solo abbiamo paura. Anche tu ti lamenti che non hai più forza.

È vero, annuì. Ma ancora posso decidere cosa fare del mio tempo.

Il figlio sospirò:

Non vogliamo litigare. Però, da fuori, sembri attaccato alle cose, mentre noi siamo al limite. Sia coi soldi che di testa. Sempre col pensiero: se ti succede qualcosa, chi va su, chi gestisce?

Giancarlo provò una fitta di colpa. Era vero: aveva pensato pure lui a cosa sarebbe successo se fosse mancato di colpo. Loro sarebbero andati fra uffici, documenti, divisioni. Sarebbe stato pesante.

Tornò a sedersi.

E se iniziò titubante, se la casetta la intestassimo a voi, ma io continuo ad andarci finché posso?

Il figlio e la figlia si guardarono. La nuora si irrigidì.

Papà, ma allora il problema resta. Noi non riusciremmo ad andare spesso. Il lavoro, i bambini

Non vi chiedo di andare, spiegò. Ci vado io. Finché ce la faccio. Poi, farete voi.

Capiva che era un compromesso. Per sé, la possibilità di mantenere il legame con la casa; per loro, la sicurezza di avere già la proprietà, senza eventuali pratiche di successione.

La figlia rifletteva.

Può essere una soluzione, disse. Ma a essere onesti, noi là ci andremo raramente. Anzi, magari cambiamo città: io e Gabriele pensiamo di trasferirci dove laffitto costa meno e cè lavoro.

Giancarlo si irrigidì. Non lo sapeva. Anche il figlio rimase stupito.

Non me ne avevi parlato, disse al fratello.

Era solo unidea, lo buttò lì lei. Ma la casetta per noi non vuol dire quello che vuol dire a te. Non ci vediamo il futuro.

Ecco,futuro. Per loro il futuro era altrove: altri posti, altri progetti. Per lui, sempre più piccolo, racchiuso in quei pochi luoghi conosciuti.

Il rimpallo andò avanti ancora un po. Loro portavano cifre, lui ricordi. Loro su salute, lui su come sarebbe morto di noia senza quelle cose. A un certo punto il figlio, stanco, sbottò:

Papà, capisci che non puoi badare a tutto eterno. Un giorno non ci andrai proprio più. Cosa resta? Una rovina? Passiamo una volta lanno a guardare il disastro?

Giancarlo si sentì pungere.

Rovina? Per te è solo rovina? domandò. Ma lì ci correvi da piccolo.

Da piccolo. Ora ho altre priorità.

Silenzio ancora. La figlia cercò di rabbonirlo:

Smettila, dai

Ma ormai era chiaro: parlavano due lingue diverse. Per Giancarlo la casetta era vita. Per loro, passato.

Si alzò.

Facciamo così. Ci penso. Non oggi, non domani. Ho bisogno di tempo.

Papà, iniziò la figlia, anche noi non possiamo aspettare troppo. Abbiamo la rata il mese prossimo…

Capisco, la interruppe. Ma dovete capire anche voi. Non è come vendere un mobile.

Tacquero. Poi si alzarono e si prepararono. In ingresso armeggiarono con le scarpe. Alla fine la figlia lo abbracciò, gli posò la guancia sulla faccia.

Non siamo contro la casetta, davvero. Solo, abbiamo paura per te.

Annui, senza fidarsi della voce.

Dopo la porta, la casa sprofondò nel silenzio. Giancarlo andò in cucina, sedette. Le tazze mezze piene, i biscotti rimasti. Le guardò e sentì la stanchezza.

Rimase così a lungo, senza accendere la luce. Fuori calava la sera, si accendevano le finestre di fronte. Poi si alzò, andò a prendere nel mobile la cartelletta coi documenti. Carta didentità, rogiti della casetta e del box. Sfogliò, si fermò sulla pianta dellorto.

Un piccolo rettangolo, diviso in riquadri. Passò il dito sulle righe, come se accarezzasse i sentieri veri.

Il giorno dopo andò al box. Serviva muovere le mani. Dentro faceva freddo. Aprì bene il portone per far entrare la luce. Sistemò gli attrezzi, iniziò a buttare roba: ferraglia, bulloni arrugginiti, cavi nel dubbio.

Il vicino anziano, Augusto, sbirciò:

Ti liberi della roba vecchia?

Sì, metto in ordine, replicò Giancarlo. Cerco di capire cosa mi serve e cosa no.

Fai bene, annuì Augusto. Io lho venduto il box, soldi per la macchina di mio figlio. Adesso niente box, ma lui contento.

Giancarlo non disse nulla. Augusto tornò da lui, mentre lui restava assieme ai suoi oggetti e pensieri. Vendi, il figlio è contento. Come fosse una giacca.

Prese una chiave inglese pesante, lucida duso. La rigirò come se avesse ancora da stringere un bullone. Ricordò quando il figlio, ancora piccolo, voleva usare anche lui la chiave. Allora credeva che sarebbero rimasti sempre insieme. Ora quel linguaggio era scomparso per lui.

Quella sera riprese in mano i documenti. Alla fine chiamò la figlia.

Ho deciso, disse. Passiamo la casetta a voi due. Ma niente vendita ora. Io ci continuo ad andare finché riesco. Poi, fate voi.

Una pausa.

Sei sicuro? chiese lei piano.

Sì, mentì. Dentro non era sicuro. Si sentiva come se si privasse di qualcosa di fondamentale, ma non vedeva altra via.

Va bene, concluse la figlia. Vediamoci domani, studiamo come fare.

Riagganciò e si sedette di nuovo. Era silenzio. Provò un senso strano di sollievo, come se avesse preso una decisione che era comunque inevitabile.

Dopo una settimana andarono dal notaio. Fecero la donazione. Giancarlo firmava con la mano che tremava un poco. Il notaio spiegava con calma dove mettere la firma. I figli erano lì, a ringraziare.

Papà, grazie. Ci aiuti tanto, diceva il figlio.

Annuiva. Ma sentiva che non era solo lui a rendere facile la loro vita anche loro gli toglievano il peso del poi. Adesso il poi era scritto sulle carte.

Il box decise di tenerlo, almeno per il momento. I figli alludevano che si sarebbe potuto vendere anche quello, ma fu irremovibile. Gli serviva per non stare sempre in casa davanti alla TV. Lì capirono.

La vita, allapparenza, cambiò poco. Continuava a vivere nel suo appartamento, ogni tanto andava alla casetta, ora solo ospite in una casa che non era più sua. Ma aveva le chiavi e nessuno gli diceva niente.

Il primo giorno dopo il passaggio ci andò da solo, in una giornata tiepida di aprile. Pensò che ormai quella casa non era più sua. Una cosa altrui. Ma quando aprì il cancello, sentì scricchiolare la solita porta, vide il solito vialetto: la sensazione di estraneità scomparve.

Entrò, si tolse la giacca, la appese al solito chiodo. Dentro era tutto come sempre: il letto, il tavolo, lorsacchiotto con lo scotch.

Sedette allo sgabello sotto la finestra. Un raggio di sole illuminava la polvere sul bordo. Passò la mano sul legno, sentendo tutte le imperfezioni.

Pensò ai figli, alle loro vite piene di rate, progetti. Pensò a sé stesso, a come ormai ogni progetto era più una stagione che un anno. Arrivare alla prossima primavera, vangare di nuovo lorto, sedersi ancora unestate sul portichetto.

Sapeva che loro un giorno avrebbero venduto la casetta. Forse fra un anno, forse cinque. Quando lui non ce lavrebbe più fatta. Diranno che non ha senso tenere una casa vuota, e avranno ragione.

Ma adesso la casa cera. Il tetto resisteva. In rimessa le pale erano in ordine. Nellorto spuntavano i primi germogli. Poteva ancora camminare nel terreno, chinarsi, raccogliere la terra.

Fece un giro fuori, si fermò vicino al recinto. Nellorto dun vicino qualcuno piantava le prime piantine. Più in là, un lenzuolo steso sulle corde. La vita, normale.

Allimprovviso capì che la sua paura non era solo per la casa o il box. Temiva di diventare inutile. Di non servire né ai figli, né a se stesso. Quei luoghi erano la sua prova di esistenza. Poteva sistemare, scavare, pitturare.

Ora la prova era fragile. Le carte dicevano una cosa, le abitudini unaltra. Ma capì che non tutto si risolve nei documenti.

Prese dalla borsa il thermos, si versò il tè. Bevve un sorso, ascoltò se stesso. Unamarezza, sì, ma anche un po di pace. Aveva deciso. Pagato il prezzo. Aveva dato ai figli un pezzo di sé, ma aveva salvato qualcosa. Il diritto di stare lì non come proprietario, ma come memoria.

Guardò la porta, la serratura, la chiave in mano: una chiave vecchia, consumata. La rigirò, la strinse. Un giorno sarebbe passata al figlio o alla figlia, o magari a sconosciuti. Avrebbero usato quella chiave senza sapere tutto ciò che racchiudeva quel gesto.

Questo pensiero lo rese triste, ma anche quieto. Le cose cambiano, passano di mano. Limportante è vivere i propri luoghi finché si può, finché sono tuoi non secondo le carte, ma nel cuore.

Finì il tè, si alzò. Andò in rimessa a prendere la vanga. Doveva almeno lavorare una parcella dellorto. Per sé, non per futuri proprietari, non per figli che magari già pensavano ai conti. Per sé, per sentire la terra.

Affondò la vanga nel terreno, spinse col piede. La terra si aprì. Il primo zolla si rivoltò, mostrando il nero umido sotto. Giancarlo inspirò quellodore, si chinò ancora.

Il lavoro era lento, la schiena doleva, le mani stanche. Ma ogni colpo toglieva un poco del peso dentro. Come se oltre alla terra dissotterrasse paure.

Sul finire del giorno si sedette sul portichetto, si asciugò la fronte. Nellorto le zolle rigirate, lombra della sera. Da lontano un uccello lanciava un grido.

Guardò la casa, le orme nel terreno, la vanga appoggiata al muro. Pensò al domani, al prossimo anno, ai prossimi cinque. Nessuna risposta. Ma sapeva che in quel momento era dove doveva stare.

Si alzò, rientrò, spense la luce, chiuse le porte. Sul portichetto si fermò ancora un attimo ad ascoltare il silenzio. Poi girò la chiave nella serratura. Il metallo fece clic.

Giancarlo mise la chiave in tasca e tornò verso la macchina, avanzando sul sentiero, facendo attenzione a non calpestare la terra appena lavorata.

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Una casa senza padrone Sergio si svegliò, come sempre, prima della sveglia, alle sei e mezza. Nell’appartamento regnava silenzio, solo il frigorifero ronzava piano in cucina. Rimase a letto ancora un po’, ascoltando quel suono, poi allungò la mano verso il davanzale a cercare gli occhiali. Fuori era ancora grigio, poche auto scivolavano silenziose sull’asfalto bagnato. Un tempo, a quest’ora, si preparava per andare al lavoro. Si alzava, andava in bagno, sentiva il vicino che accendeva la radio attraverso il muro. Ora il vicino la radio la accendeva sempre, ma lui rimaneva a letto a pensare a cosa avrebbe fatto in giornata. Formalmente era in pensione già da tre anni, ma continuava a vivere seguendo la vecchia routine. Si alzò, indossò i pantaloni della tuta e andò in cucina. Mise su il bollitore, prese una fetta del filone avanzato dalla sera prima. Mentre l’acqua si scaldava, si avvicinò alla finestra. Settimo piano, palazzina popolare, il cortile con l’altalena e lo scivolo. Giù sotto, sotto le sue finestre, c’era la sua vecchia Panda 4×4, ricoperta da uno strato sottile di polvere. Pensò che sarebbe stato il caso di passare dal garage, controllare se il tetto aveva tenuto. Il garage era nel complesso al terzo capolinea del bus. Un tempo ci trascorreva metà dei weekend: sistemava la macchina, cambiava l’olio, chiacchierava con gli altri dei prezzi della benzina o del campionato. Poi tutto era diventato più facile: officina, gommista, negozio online. Eppure il garage non l’aveva mai lasciato. Lì c’erano i suoi attrezzi, le gomme vecchie, scatoloni di cavi elettrici e assi — “roba da tenere”, come diceva lui. E la casa di campagna. Una piccola villetta nel consorzio degli orti dietro la città. Casetta di legno, veranda stretta, due stanzette e una micro cucina. Chiudendo gli occhi si vedevano le assi consunte, le crepe sul pavimento, il rumore della pioggia sul tetto. La villetta era stata un tempo dei genitori della moglie. Più di vent’anni fa, ogni weekend ci andavano coi figli. Zappavano nell’orto, friggevano patate, mettevano il mangianastri sullo sgabello. La moglie non c’era più da quattro anni. I figli erano cresciuti, ognuno con la propria casa, la propria famiglia. Ma la villetta e il garage erano rimasti a lui. Come punti fissi, a tenerlo saldo. Ecco l’appartamento. Ecco la villetta. Ecco il garage. Tutto al suo posto. Il bollitore fischiò. Sergio si preparò il tè e si sedette al tavolo. Sulla sedia di fronte era piegito il maglione indossato il giorno prima. Mangiava il pane col prosciutto e pensava alla discussione della sera passata. La sera prima erano venuti i figli. Il figlio con la moglie e il nipotino, la figlia col marito. Hanno preso il tè, parlato delle ferie cui pensavano. Poi la conversazione è andata a finire, come sempre, su soldi. Il figlio si lamentava del mutuo, della rata in aumento. La figlia diceva che l’asilo costava tanto, con tutte le attività e i vestiti. Sergio annuiva; ricordava anche lui i tempi in cui faceva i conti fino a fine mese. Ma allora non c’erano né villetta né garage. Solo una stanza in affitto e la speranza. Poi il figlio, tutto impacciato, aveva detto: — Papà, noi e anche Chiara pensavamo… forse dovresti vendere qualcosa. Magari la villetta. O il garage. Tanto ormai quasi non ci vai… Sergio aveva buttato la cosa sul ridere, poi però, quella notte, aveva girato e rigirato in testa quel “ormai non ci vai”. Finito di fare colazione, riordinò la tazza nel lavello. Guardò l’ora. Erano le otto. Decise che sarebbe andato in campagna. Avrebbe controllato la situazione dopo l’inverno. E, magari, avrebbe anche dimostrato qualcosa a se stesso. Si vestì, prese i mazzi di chiavi dal corridoio e se li mise in tasca. Davanti allo specchio, vide riflesso un uomo coi capelli striati di grigio, gli occhi un po’ stanchi, ma ancora robusto. Non un vecchio. Sistemò il colletto e uscì. Fece una sosta al garage, dove prese un paio di attrezzi. Il lucchetto cigolò, la porta si aprì col solito sforzo. Dentro odorava di polvere, benzina e strofinacci vecchi. Sui ripiani barattoli pieni di bulloni, scatole di cavi, una vecchia cassetta con l’etichetta sbiadita. In alto, ragnatele. Sergio scorse le cose sulle mensole. Il cric della prima macchina. Le assi di legno che aveva comprato per fare una panca, poi mai fatta. Ma erano lì, ad aspettare. Prese la cassetta degli attrezzi, alcune taniche di plastica, chiuse il garage e ripartì. Il viaggio fuori città durò quasi un’ora. Ai lati della strada la neve era ancora sporca, qua e là si vedeva la terra. Nel consorzio era tutto tranquillo. Ancora presto perché arrivassero in massa. Alla sbarra c’era la custode in piumino, lui la salutò con un cenno. La villetta lo accolse immobile, come sempre tra una stagione e l’altra. La staccionata di legno scrostata, il cancelletto che si era storto. Lo aprì, seguì il viottolo fino alla veranda. Sotto i piedi crocchiavano le foglie dell’anno prima. Dentro odorava di chiuso e legno. Sergio aprì le finestre, tolse la coperta dal letto e la scosse. In cucina la vecchia pentola smaltata sul tavolo, quella dei composti di frutta d’estate. Sull’attaccapanni vicino alla porta, il mazzo delle chiavi del capanno. Camminava per la casa, toccando muri, maniglie. Nella stanza dei figli c’era ancora il letto a castello. Sulla mensola in alto, un orsetto di peluche senza un’orecchia. Sergio ricordava suo figlio che piangeva per quell’orecchio, e lui, non trovando colla, l’aveva fissato col nastro isolante. Si mise a sistemare; spazzò il vialetto dalle foglie, fissò la tavola traballante della veranda, controllò il tetto del capanno. Nel capanno trovò una vecchia seggiolina di plastica, la portò fuori e si sedette. Il sole era già alto, faceva più caldo. Prese il cellulare e guardò la lista delle chiamate. Suo figlio aveva chiamato la sera prima. La figlia aveva scritto che bisognava parlare con calma e “ragionare insieme”. «Non siamo contro la villetta, papà. Solo, pensiamoci in modo razionale», diceva il messaggio. Razionale. Questa parola la sentiva ormai quasi ogni settimana. Razionale — cioè non tenere soldi eccessivi fermi. Razionale — cioè un uomo anziano non deve stancarsi con orti e garage. Razionale — cioè aiutare i giovani, finché si è in vita. Li capiva. Davvero li capiva. Ma seduto lì, sulla seggiolina, ad ascoltare lontani latrati di cane e le gocce che cadevano dal tetto, tutta quella razionalità gli sembrava solo teoria. Qui non c’entrava il calcolo. Sergio si rimise a girare per il giardinetto, poi chiuse la casa, agganciò il pesante lucchetto e si rimise in viaggio per tornare a Milano. A pranzo era già a casa. Appese la giacca, posò la borsa degli attrezzi. In cucina mise il bollitore sul fuoco e solo allora vide il biglietto. Breve, su un foglietto della figlia: «Papà, stasera passiamo a parlare. C.» Si sedette, le mani sul tavolo. Quindi sarebbe stato quella sera. Avrebbero davvero parlato, senza più scherzare. Quella sera arrivarono loro tre: il figlio con la moglie e la figlia. Il nipote era rimasto dalla suocera. Sergio aprì, salutò, li fece entrare. Il figlio si tolse le scarpe e la giacca come faceva da bambino. In cucina si sedettero al tavolo. Sergio mise su tè, biscotti, caramelle. Nessuno toccò nulla. Per alcuni minuti parlarono di niente: il nipote, il lavoro, il traffico cittadino. Poi la figlia guardò il fratello, lui annuì, e disse: — Papà, parliamone davvero. Non vogliamo metterti pressione, ma… dobbiamo capirci, tutti. Sergio sentì un nodo alla gola. Annuì: — Dite pure. Il figlio prese la parola: — Hai l’appartamento, la villetta e il garage. L’appartamento è sacro, nessuno ne parla. Ma la villetta… Dici tu stesso che è faticoso. L’orto, il tetto, lo steccato. Ogni anno devi spenderci sopra. — Oggi ci sono stato, — mormorò Sergio. — Tutto ok. — Oggi sì, — si inserì la nuora. — Ma tra cinque, dieci anni? Non sarai eterno. Scusa se te lo dico, ma dobbiamo pensarci. Sergio abbassò lo sguardo. L’idea di non essere eterno era dolorosa, anche se la nuora non voleva ferirlo. La figlia prese un tono più dolce: — Non diciamo che devi sbarazzarti di tutto. Pensiamo solo che potresti vendere villetta e garage, dividere i soldi. Una parte resterebbe a te, il resto a noi e a Gianni. Così chiudiamo un po’ di mutuo. Tu stesso dici sempre che vuoi aiutarci. Ed era vero. Lo aveva promesso, in pensione, quando si sentiva ancora forte. Allora era convinto che avrebbe potuto lavorare, anche dopo. — Ma vi aiuto già, — disse. — Tengo il piccolo, vi compro delle cose. Il figlio sorrise con amarezza: — Papà, non è la stessa cosa. Abbiamo bisogno di una bella somma, adesso. Hai visto anche tu le rate. Non diciamo di prenderci tutto. Solo…ci sono immobili che ormai stanno lì. Quel termine, “immobili”, sembrò estraneo in quella cucina. Sergio percepì come una barriera invisibile davanti a loro fatta di numeri e mutui. Bevve un sorso di tè ormai freddo. — Per voi sono immobili, — disse piano. — Per me sono… Tacque, in cerca della parola giusta. Non voleva sembrare retorico. — Pezzi di vita, — concluse. — Il garage l’ho costruito io stesso, con mio padre. Lui c’era ancora. La villetta… là siete cresciuti voi. La figlia abbassò gli occhi. Il figlio rimase zitto, poi disse con più delicatezza: — Lo sappiamo, davvero. Ma quasi non ci vai più. Si vede chiaramente. Resta tutto fermo. Da solo non ce la farai più. — Oggi ci sono stato, — ripeté Sergio. — Tutto in regola. — Oggi, — disse il figlio. — Ma prima? In autunno? Papà, sii serio. Silenzio. Sergio sentì il ticchettio dell’orologio nella stanza accanto. Immaginò la scena da fuori: loro seduti a discutere della sua vecchiaia come di un dossier. Ottimizzazione delle spese, risorse. — Va bene, — disse. — Che proponete esattamente? Il figlio si animò. Era evidente che tra fratelli avevano già deciso. — Abbiamo pure trovato l’agenzia. Ci dicono che la villetta vale bene. Il garage anche. Prendiamo in mano tutto: visite, documenti. Tu devi solo firmare una procura. — E l’appartamento? — chiese Sergio. — L’appartamento non si tocca, — rispose rapida la figlia. — È casa tua. Annuii. Casa — che parola strana, pensò. Casa sono solo queste mura? O vale anche la villetta? E il garage, che in fondo era stato il suo mondo per tanti anni? Si alzò, andò alla finestra. Giù nel cortile i lampioni si erano appena accesi. Tutto era come vent’anni prima. Cambiavano solo le auto e i bambini giocavano col cellulare. — E se non voglio vendere? — chiese, senza voltarsi. Il silenzio calò ancora più fitto. Poi la figlia: — Papà, è tuo tutto. Scegli tu. Nessuno ti obbliga. Solo… siamo preoccupati. Dici anche tu che fatichi di più. — Più fatica sì, — concesse. — Ma posso ancora scegliere da solo cosa fare. Il figlio sospirò: — Non ci vogliamo litigare. Ma sembra che tu ti attacchi alle cose, e noi intanto soffriamo. Sia come rate, sia come pensiero. Abbiamo paura: se ti ammali? Chi ci va in campagna, chi sistema tutto? Sergio si sentì in colpa. Anche lui, in fondo, ci pensava. Se venisse a mancare di colpo, i figli si sarebbero ritrovati a gestire eredità, carte, divisioni. Un peso vero per loro. Si risiedette. — E se… — abbozzò, — intestassi la villetta a voi due? Io ci andrei finché me la sento, poi fate voi. Il figlio e la figlia si guardarono. La nuora si rabbuiò. — Papà, — replicò lei, — ma allora resta comunque un problema. Noi non potremmo andarci quanto tu vuoi. Abbiamo lavoro, bambini… — Non vi chiedo di andarci. Faccio da me, finché posso. Dopo, decidete. Capiva bene che era un compromesso. Per sé — mantenere un posto che per lui era più di un terreno. Per loro — la certezza che sarebbe stata roba loro già in vita, senza rogne di successione. La figlia rifletté. — Potrebbe andare, — disse. — Ma diciamoci la verità: non ci vivremo. Abbiamo altri progetti. Io e Marco pensiamo di traslocare fuori città, lì costa meno. Sergio quasi trasalì. Non sapeva nulla. Anche il figlio aprì gli occhi sorpreso. — Non me l’avevi detto, — fece. — Sono solo idee… Comunque. La villetta per noi non conta come per te. Non ci vediamo futuro. Prese la parola “futuro”. Per loro il futuro era altrove. Per lui era rimpicciolito a pochi punti: l’appartamento, il garage, la villetta. Posti conosciuti a memoria. Si andarono avanti così ancora una ventina di minuti. Loro portavano cifre, lui ricordi. Loro parlavano di salute, lui di attività da non perdere. A un certo punto, stanco, il figlio sbottò: — Papà, capiscilo: non potrai zappare per sempre. Verrà il giorno che non ci andrai più. E poi? Tutto marcirà? Noi ci andremo solo a vedere il rudere una volta l’anno? Sergio sentì salire la rabbia. — Per te sarebbe solo un rudere? — chiese. — Da piccolo ci correvi sulle “rovine”. — Ero piccolo, — rispose il figlio. — Ora ho altro a cui pensare. La figlia provò ad ammorbidirlo: — Gianni… Ma era già tardi. Sergio se ne rese conto: parlavano due lingue diverse. Per lui la campagna era vita. Per loro, un ricordo. Si alzò. — Facciamo così. Ci penso. Non oggi, non domani. Ho bisogno di tempo. — Papà, — riprese la figlia, — anche noi non possiamo aspettare troppo. Il prossimo mese c’è il pagamento… — Capisco, — la interruppe. — Ma non è come vendere un armadio. Non dissero altro. Si prepararono a tornare. Nell’ingresso ci misero un po’ con le scarpe. Prima di uscire, la figlia lo abbracciò. — Non siamo contro la villetta, papà, — sussurrò. — Solo, abbiamo paura per te. Sergio annuì, senza fiato. Richiusa la porta, la casa fu travolta dal silenzio. Sergio si sedette in cucina. Guardava le tazze, i biscotti rimasti. Sentì una stanchezza tremenda. Rimase lì, al buio. Fuori le finestre si illuminavano una a una. Dopo un po’ si alzò, prese dal mobile la cartella coi documenti. Passaporto, atti della villetta e del garage. Sfogliò, si fermò alla piantina dell’orto. Un piccolo quadrato, grigliato dai rettangoli delle aiuole. Seguì col dito, come a ripercorrere i vialetti veri. Il giorno dopo andò in garage. Aveva bisogno di fare qualcosa con le mani. Dentro faceva fresco. Aprì il portone, fece entrare luce. Sistemò gli attrezzi, scartabellò nelle scatole. Parte del vecchiume decise di buttarlo: pezzi inutili, bulloni arrugginiti, fili che aveva tenuto “per sicurezza”. Il vicino, Giulio, passò a salutarlo: — Butti il vecchiume? — Metto in ordine, — rispose Sergio. — Mi chiedo cosa mi serva ancora, e cosa no. — Fai bene, — disse Giulio. — Io il garage l’ho venduto. Al figlio servivano soldi per la macchina nuova. Ora sono senza garage, ma lui contento. Sergio non replicò. Giulio tornò da lui, Sergio rimase con le sue scatole e i suoi pensieri. Venduto — figlio contento. Come se fosse una vecchia giacca. Prese una chiave inglese, pesante da quanto era usata. La rigirò in mano. Ricordò il figlio piccolo, che voleva provarla anche lui. Allora Sergio era sicuro che sarebbero rimasti sempre così, insieme. Casa, garage, macchina: un linguaggio comune. Ora quelle cose per il figlio erano diventate straniere. La sera riprese in mano i documenti. Rimase molto a pensare, poi chiamò la figlia. — Ho deciso, — disse. — La villetta la intesterete a voi due. Ma non si vende. Ci vado finché voglio. Poi scegliete voi. Dall’altro lato silenzio. — Sei sicuro, papà? — Sì, — anche se dentro di sé non lo era molto. Sentiva di tagliarsi via qualcosa. Ma non c’era alternativa. — D’accordo. Vediamoci domani, parliamo con calma. Riagganciò. Silenzio. Sentiva, oltre la stanchezza, un sollievo strano. Aveva preso una decisione ineluttabile. In una settimana, firmarono dal notaio il passaggio di proprietà. Sergio firmava con la mano un po’ tremante. Il notaio spiegava pacato. I figli ringraziavano. — Grazie, papà. Ci aiuti davvero, — diceva il figlio. Sergio annuiva, ma sapeva che non stava aiutando solo loro. Lo stavano aiutando anche loro, separandolo dal pensiero dell’ “e dopo?”. Ora il dopo era nero su bianco. Il garage se lo tenne ancora. I figli ci provarono: “che ne dici se lo vendiamo anche quello?” Ma lui fu irremovibile. Gli serviva per non stare in casa a guardare la tv. Questo lo capirono. Fuori, la vita non cambiò molto. Viveva sempre nell’appartamento, andava talvolta ancora in campagna, ora come ospite nella villetta che formalmente non era più sua. Ma aveva le chiavi, nessuno gli metteva ostacoli. La prima volta dopo il passaggio ci andò da solo, in un pomeriggio già caldo di aprile. Pensava: ormai quella casa non è più mia. È roba d’altri. Ma appena aprì il cancelletto, sentì scricchiolare il viottolo noto, la sensazione sparì. Entrò, tolse la giacca, la appese. Tutto era come sempre: il letto, il tavolo, l’orsetto col nastro all’orecchio. Si sedette sullo sgabello, il sole che batteva sul davanzale, la polvere illuminata. Passò la mano sul legno, sentiva ogni irregolarità. Pensava ai figli. Alle loro rate, ai programmi, ai pensieri lontani. E a sé, coi suoi piani ormai corti come le stagioni. Arrivare alla primavera dopo, lavorare un’altra volta l’orto, sedersi un’altra estate sulla veranda. Sapeva che, prima o poi, avrebbero venduto la villetta. Forse tra un anno, cinque. Quando non riuscirà più ad andare. Diranno che è inutile tenere una casa vuota. E avranno le loro buone ragioni. Ma ora la villetta era lì. Il tetto reggeva. Nel capanno c’erano ancora le zappe. Sull’orto spuntavano i primi germogli. Sergio poteva ancora girare tra i filari, abbassarsi, scavare. Uscì fuori, girò intorno alla casa. Si fermò alla staccionata, guardò i vicini: su un orto una signora già piantava i pomodori, sull’altro si stendeva il bucato. La vita continuava. Ecco, pensò: la vera paura non è per la villetta o il garage. Era la paura di diventare superfluo. Non servire più a nessuno, nemmeno a sé. Quei posti erano la prova che ancora contava qualcosa. Che poteva aggiustare, dipingere, coltivare. Ora quella prova era fragile. I documenti dicevano una cosa, le abitudini un’altra. Ma, seduto sulla veranda, capì che non tutto dipende dalle carte. Prese il thermos, versò il tè nella tazza. Bevve. Dentro sentiva amarezza, ma meno di quella sera in cucina. La decisione era presa, il prezzo era noto. Aveva dato ai figli una parte di sé, ma aveva in cambio ancora qualcosa: il diritto di esserci, non per atto notarile, ma per memoria. Guardò la porta, la serratura, la chiave nella mano. Era vecchia, rovinata. La strinse. Un giorno sarebbe stata in mano al figlio, alla figlia, o a qualche sconosciuto che l’avrebbe comprata. Avrebbero girato la chiave senza sapere quanta vita c’era dietro quel gesto. Gli venne tristezza, ma anche una pace strana. Il mondo passa di mano in mano. Bisogna viverlo, il proprio posto, finché lo si sente proprio, anche solo dentro. Sergio finì il tè e si alzò. Andò nel capanno a prendere la zappa. Almeno un’aiuola avrebbe voluto vangarla. Per sé. Non per i futuri padroni, non per i figli intenti coi conti. Per sé, per sentire la terra sotto i piedi e tra le dita. Premette il piede sulla lama, la terra si aprì, umida. Inspirò il profumo, ripeté il gesto. Il lavoro era lento. La schiena faceva male, le braccia si stancavano. Ma ogni colpo gli portava più sollievo. Come se zappasse via anche la paura. Verso sera sedette sulla veranda, asciugò la fronte. Nell’orto c’erano file ordinate di zolle. Il cielo tendeva al rosa. Da lontano gridava un uccello. Guardò la casetta, le sue orme sulla terra, la zappa appoggiata al muro. Pensò al domani, all’anno dopo, ai cinque anni. Nessuna risposta. Ma sentiva, adesso, di essere ancora nel suo posto. Si alzò, entrò, spense la luce, chiuse la porta. Sulla veranda sostò un attimo, ascoltando il silenzio. Poi girò la chiave nella serratura con un piccolo scatto. Sergio mise la chiave in tasca e si avviò verso la macchina, seguendo il viottolo, evitando di calpestare la terra appena lavorata.