Vivevo in una bellissima casa. Accanto, nell’aiuola, fiorivano ortensie e petunie. Quel tripudio viola mi faceva impazzire per quanto era bello.
Mi sedevo sull’altalena del giardino con le gambe raccolte, leggendo un libro. Nel forno, una crostata di albicocche stava quasi pronta. Il profumo si mescolava all’odore fresco della menta che cresceva vicino, e sembrava che anche il paradiso avesse quel sentore.
Sapevo sempre esattamente quando sarebbe arrivato. Quel giorno, avevo preparato l’impasto fin dal mattino. Amavo sperimentare ripieni diversi per le mie torte, mentre tutte quelle patate, sughi e minestre non mi interessavano affatto. La magia stava nell’impasto, che docile prendeva la forma giusta sotto le mie mani esperte.
Era buffo. Una volta, era solo mia nonna a fare le crostate. Ora toccava a me. E non ero certo una nonna.
Lui non sapeva mai quando sarebbe partito. Passava un po’ di tempo e poi, all’improvviso, sentiva il bisogno di me. E chiamava sempre dalla strada.
Non aveva nulla e nessuno. Solo una vita passata, due matrimoni falliti, un figlio, un trasloco in un’altra città, le sue cose ammassate nel bagagliaio della macchina, un groviglio di ricordi e la lenta fuga da quel buco nero di rabbia e disperazione.
Ci eravamo conosciuti in modo banale. A una festa in spiaggia. Un gruppo di adulti, estranei tra loro. Lui era stato trascinato da un amico, io da mia sorella. Né io né lui volevamo andare, e così eravamo rimasti ai margini di quella festa della vita. Poi mi aveva invitato a ballare. E, chissà perché, aveva comprato una rosa kitsch da una fioraia ambulante. Infine, mi aveva riaccompagnata a casa, attraversando l’intera città.
E tutto era cominciato. E lui si era spaventato. Perché torturarsi di nuovo il cuore?
Ma ogni volta che il vuoto intorno a lui diventava insopportabile, saliva in macchina e partiva. Per nascondere il viso nei miei capelli e sussurrarmi all’orecchio: «Ehi, ciao…»
Aveva perfino iniziato a pensare che avrebbe potuto restare lì, con me, per sempre.
Una volta me l’aveva detto. I miei occhi si erano illuminati per un attimo, poi tutto era svanito: «Fai come vuoi, come credi sia giusto.»
E ogni volta che ci lasciavamo, era come strapparci la pelle viva. Lui usciva dal cancello, si fermava, si voltava. Tornava per un altro bacio. Provava ad andarsene di nuovo. E poi tornava ancora.
Gli dispiaceva di avermi incontrata troppo tardi. Eppure era felice di avermi incontrata.
Io intanto versavo il tè in una tazza alta, tagliavo la crostata e mi sedevo di fronte a lui. Niente di speciale. Nella sua vita c’erano state passioni ardenti e notti febbrili. Ma alla fine, aveva scoperto che gli serviva questo amore tranquillo, che sapeva di menta e di marmellata di fragole. O di lamponi. O di arance amare. E le conversazioni fino all’alba. E la curva del mio fianco. E il mio sorriso assonnato. E il mio respiro nella cornetta del telefono, attraverso chilometri e segnali satellitari.
Quel giorno, non aspettò il weekend. Chiamò, come al solito, dalla strada. Spense il telefono, alzò il volume della musica e non sentì l’impatto.
Io non avrei mai saputo che stava venendo da me per restare, questa volta.
Lui non avrebbe mai saputo che sua figlia aveva gli occhi di un blu intenso.






