Era una notte fredda quando la vidi per la prima volta. Una donna incinta e senza tetto era seduta proprio davanti alle porte del reparto maternità. Nessuno sapeva chi fosse o da dove venisse… finché il dottor Marco Bianchi incrociò il suo sguardo e tutto cambiò.
Ero di turno quella sera quando è arrivata. Anzi, per la verità, non l’ha portata nessuno è apparsa così, allimprovviso, sulluscio della sala parto. Incinta, pallida, con degli occhi che raccontavano dolore e una silenziosa richiesta daiuto.
Si era seduta su una panchina nel corridoio, abbracciandosi la pancia, e quasi non si muoveva. Non aveva documenti, né effetti personali, nemmeno un nome con cui registrarne lingresso.
I colleghi bisbigliavano: «Cosa facciamo con lei? Dove la mandiamo?». La caposala fece un gesto con la mano, come a dire che non cera tempo per occuparsene.
Stavo per avvicinarmi quando il dottor Bianchi entrò nel corridoio. Si fermò di colpo vedendola. Il suo sguardo divenne pesante, quasi vuoto, come se non stesse guardando una paziente, ma un fantasma del passato.
«Chi è questa donna?» chiese a bassa voce, ma nessuno rispose.
Il dottore si avvicinò, si inginocchiò davanti a lei e la fissò negli occhi. Vidi qualcosa cambiare nel suo volto prima confusione, poi… riconoscimento.
«Assegnatele subito una stanza» ordinò seccamente, senza neppure guardarci.
Notai che i suoi occhi si posarono su un vecchio collare dargento che la donna portava al collo. Poi mormorò allimprovviso:
«Dio mio… è possibile che sia… lei?»
Il dottore si alzò e, senza aggiungere altro, la condusse in una stanza vuota. La porta si chiuse subito dietro di loro.
Ci guardammo tra noi non lavevo mai visto così. Di solito freddo, controllato, ma ora… nei suoi movimenti cera urgenza, e nei suoi occhi preoccupazione.
Qualche minuto dopo, portai una flebo nella stanza. Lei era seduta sul letto e lui le parlava sottovoce, quasi sussurrando. Riuscii a cogliere solo alcune parole: «allora… non sono arrivato in tempo… perdonami…».
Lei distolse lo sguardo e strinse il collare tra le dita.
Mentre sistemavo la flebo, avvertivo la tensione che riempiva la stanza. La donna taceva, ma nei suoi occhi cera qualcosa di familiare… e non riuscivo a capire cosa fosse.
«Sai bene che ora sarà tutto diverso» le disse il dottore con voce bassa, e nel suo tono non cera la severità del medico, ma un dolore personale.
Lei annuì senza alzare gli occhi.
«Dottore, scusi» non riusciì a trattenermi. «Chi è?»
Mi guardò come soppesando ogni parola. Poi sospirò profondamente.
«È mia sorella.»
Per poco non mi cascò la flebo di mano.
«Ma… lei aveva detto di non avere nessuno…»
«Dovevo dirlo» mi interruppe. «Abbiamo perso i contatti più di dieci anni fa. È scomparsa…»
Non chiesi altro. Ma uscendo dalla stanza, capii: la loro storia era molto più complicata di un semplice ritorno.





