L’aria gelida tagliava il viso come mille aghi, ma Ettore non sentiva il freddo. Dentro di lui tutto si era congelato — il cuore era diventato un blocco di ghiaccio, più freddo di qualsiasi bufera. Era in piedi nel mezzo di un parco innevato, avvolto nella penombra serale, e scrutava febbrilmente i passanti, cercando di scorgere quella piccola sagoma in una tuta rosso lampone. Sandro. Suo nipote.
Per Ettore, quel bambino era il suo universo. Stringendo il telefono in mano, maledisse mentalmente il momento in cui si era distratto per una chiamata di lavoro. Un solo attimo di disattenzione, e ora il suo cuore si stringeva dalla paura e dal senso di colpa. Si rimproverava senza pietà, con ogni fibra del suo corpo robusto.
Nella mente, un solo pensiero martellava: *”Lo perderò.”* L’ultimo anno era stato una sequenza di perdite irreparabili. Prima era morta la moglie — silenziosamente, quasi impercettibilmente, come se si fosse spenta sotto il peso della malattia. Poi era arrivata la terribile notizia dall’Himalaya — lì erano morti sua figlia e suo genero. I genitori di Sandro.
Quel bambino dallo sguardo serio e dal sorriso tenero era tutto ciò che rimaneva del suo passato. L’unico sostegno. Perderlo gli causava un soffocamento fisico. Si aggrappava a Sandro come un naufrago si aggrappa a un ramo. Non poteva immaginare la vita senza di lui.
La paura cresceva. Urlò, con la voce rotta:
— Sandro! Sandrino! Dove sei?!
Silenzio. Solo il fischio del vento che portava nevischio. I passanti lo guardavano con disapprovazione — per loro era solo un nonno distratto che aveva perso un bambino. Nessuno sapeva quanta pena si celasse dietro quel grido.
E poi, quando la speranza stava per sfumare, un grido sottile e spaventato venne dal fiume. Ettore si irrigidì. Era la voce di Sandro. Un urlo che gli gelò il sangue.
Senza pensarci, corse verso la riva. Conosceva bene quel fiume. Il ghiaccio sembrava solido, ma sotto la neve soffice si nascondevano pericolosi crepacci. E lì, nell’acqua nera, si dibatteva una piccola sagoma in tuta rosso lampone. Sandro.
Il cuore di Ettore precipitò. Corse, affondando nella neve, inciampando, ansimando. La distanza sembrava infinita. Vide il nipote lottare contro l’acqua gelida, i vestiti che lo trascinavano giù. Sapeva che non ce l’avrebbe fatta. Ma proprio quando la disperazione stava per inghiottirlo, dall’ombra emerse una figura scura. Una donna.
Si muoveva con agilità felina — si distese sul ghiaccio, scivolò fino alla spaccatura, afferrò Sandro con un gesto rapido e lo trascinò sulla riva.
Ettore raggiunse il gruppo, strappò il nipote dalla neve e lo strinse al petto con tutta la sua forza. Il bambino piangeva, tremante. Senza dire nulla, Ettore ordinò alla donna:
— Vieni con me. A casa. A scaldarci.
Lei lo seguì in silenzio.
In macchina, avvolto nella giacca del nonno, Sandro si calmò piano. Il medico lo visitò e disse che sarebbe stato tutto a posto. A casa, Ettore lo mise a dormire, poi entrò in cucina, dove la donna lo aspettava avvolta nel suo vecchio accappatoio. Sembrava fragile, stanca, con un dolore profondo negli occhi.
— Come ti chiami? — chiese, porgendole una tazza di tè.
— Serena.
— Grazie. Hai salvato mio nipote. Il mio unico tesoro. Non immagini quanto significhi per me.
Cercò di darle dei soldi, ma lei ritirò le mani.
— Non ho fatto nulla di speciale. Ero solo lì. Chiunque l’avrebbe fatto.
Ettore capì che diceva la verità. Niente avidità, solo stanchezza e tristezza.
— Forse… hai bisogno di lavoro? — chiese gentilmente. — Ho un ristorante. C’è un posto come aiuto in cucina. Paga modesta, ma sicura. Se vuoi, sarò felice di averti.
Serena alzò gli occhi pieni di lacrime.
— Grazie… Sì, accetto.
Passarono settimane veloci. Ettore era impegnato tra Sandro e il lavoro, ma si accorse che osservava sempre più spesso Serena. Lavorava con cura, con un istinto che sembrava innato. A volte aiutava i cuochi con consigli che rivelavano una competenza sorprendente.
Poi arrivò la crisi: un politico importante aveva prenotato un banchetto con richieste complesse, e i tempi erano impossibili. Per il ristorante, era un’occasione unica. Per Ettore, un rischio enorme.
Fu allora che capì quanto Serena fosse più di una semplice aiutante. Prese il controllo, organizzò il lavoro, trovò soluzioni geniali. E il banchetto fu un trionfo.
Ettore comprese: non era solo un’assistente. Era una persona di cui fidarsi. Una persona che cercava una seconda possibilità, e l’aveva trovata in quel lavoro, in quella famiglia inaspettata.
La notte prima del banchetto, mentre Ettore cercava di prevedere ogni problema, ricevette una chiamata. Era Vittorio, il suo chef, con una voce rotta dal dolore:
— Ettore, disastro… Sono caduto dalle scale. Gamba rotta. Non posso lavorare.
Il cuore di Ettore si fermò.
— Vittorio, il menu? Almeno hai iniziato?
— No, — rispose l’uomo, colpevole. — Scusa, ti ho deluso.
Ettore riagganciò. Il fallimento avrebbe rovinato la sua reputazione. Riunì lo staff in cucina, il volto cupo.
— Emergenza, — disse. — Vittorio è fuori gioco. Domani banchetto del signor Bianchi. E non abbiamo un menu.
Silenzio. Poi, dalla cucina, Serena parlò con calma:
— Posso vedere l’ordine?
Ettore glielo passò. E lei, come trasformata, iniziò a scrivere. Non solo modifiche: creò un menu perfetto, sostituì ingredienti costosi con alternative eleganti, calcolò tempi e abbinamenti come un’esperta.
Lo staff la guardò stupito. Quando finì, scoppiò un applauso. Ettore la chiamò nel suo ufficio.
— Serena, perché nascondevi questo talento?
Lei abbassò lo sguardo, poi confessò:
— Avevo un ristorante, prima. L’avevo creato prima del matrimonio, ci avevo messo l’anima. Poi arrivò mio marito. Era un ristoratore di successo. Lo amavo. Ma rubava, giocava d’azzardo. Quando lo scoprii, rapì nostro figlio, Luca. Aveva un cuore malato.
Serena serrò i pugni.
— Lo rinchiuse in casa, chiedendo il ristorante in cambio. Luca morì per la paura, senza medicine. Io… comprai una pistola. Gli sparai. Lui sopravvisse, mi fece condannare. Il ristorante fu venduto.
Ettore rimase in silenzio. Poi disse:
— Credo in te. Domani sarai tu lo chef.
Il banchetto fu un successo straordinario. Il signor Bianchi ringraziò personalmente Ettore. E Serena, in cappello da chef, guidò la cucina con maestria.
Ettore capì di amarla. Forte, spezzata, ma non distrutta.
Quando l’ultimo ospite se ne fu andato, Ettore raggiunse Serena ai fornelli. La prese per mano.
Lei lo guardò, gli occhi lucidi, e sussurrò: “Sì”.