«Una madre finge di essere malata per scoprire quale figlio la ama davvero: il risultato è sorprendente»

La madre finse di essere malata per capire chi dei figli la amava veramente. Il risultato fu inaspettativo.

Quel mattino, quando il telefono squillò, Carlotta si svegliò di soprassalto, confusa tra il sonno e la realtà. Sullo schermo brillava il nome “mamma”. La voce era allegra, quasi spensierata:

“Dormi ancora, pigrona? Io ho già infornato la focaccia. Domani venite tutti, tu e Sandro. Dobbiamo parlare. No, non dell’orto. Del testamento! Non voglio che alle mie esequie vi strappiate i capelli per la casa e due spicci. Presentatevi entrambi, senza scuse!”

Carlotta rimase senza fiato. Testamento? Funerali? Ma la madre parlava con tale fermezza che discutere era inutile.

Intanto, Elisabetta Rinaldi, madre di Carlotta e Sandro, sedeva al tavolo sistemandosi lo scialle di lana. Accanto a lei, la vicina Pia la fissava preoccupata:

“Elisa, stai male? Perché parli di queste cose sinistre? Mi fai paura…”

“Tranquilla, Pia. Voglio solo rivedere i miei figli. Un anno che non si fanno vivi. Ognuno per conto suo, come estranei. Se domani mi succede qualcosa, chi glielo spiegherà? E poi… voglio metterli alla prova. Vedere chi mi vuole davvero bene.”

Dopo aver salutato Pia, Elisabetta chiuse la porta e andò a riordinare. Domani sarebbe stato un giorno importante.

L’alba arrivò grigia, quasi complice del suo piano. Sistemò la casa, indossò una vestaglia logora, si lavò il viso e si sedette in poltrona, trattenendo il respiro. Dopo un’ora, bussarono alla porta.

Prima entrò Carlotta, col fiato corto e lo sguardo angosciato.

“Mamma! Cosa succede? Stai male? Che testamento?” gridò, precipitandosi verso di lei.

Più calmo, Sandro la seguì.

“Ci hai spaventati, mamma. Ti senti così male?”

“Sedetevi,” disse Elisabetta con voce ferma. “E chiamate pure i vostri consorti. Marta, Luca, entrate pure.”

Quando tutti furono a tavola, parlò.

“Ascoltate senza interrompere. La vecchiaia non è una gioia, e io vivo sola. Le malattie non avvisano. Ho voluto chiarire tutto prima. Ma prima… servirebbe una mano. Chi, se non i miei figli, può aiutare una vecchia? La legna da spaccare, il pranzo da preparare…”

Carlotta e Marta annuirono e si misero all’opera. Elisabetta osservava: l’impasto si attaccava alle dita, le patate erano tagliate troppo grosse, le pentole sbattevano. “Cittadine incapaci,” pensò con malinconia, ma non disse nulla. Non era quello il punto.

Dopo cenero, chiese a Luca e Marta di uscire, rimanendo sola con i figli.

“Allora, ascoltate bene. La casa dove siete cresciuti l’ho lasciata a Pia, la vicina. Lei è qui, lei mi aiuta. Sandro, a te lascio la rimessa e gli attrezzi. Fa’ pure ciò che vuoi. E a te, Carlotta, i miei risparmi. Ho messo da parte la pensione per anni.”

Un silenzio pesante calò nella stanza.

“La casa… a un’estranea?” esclamò Sandro. “Dici sul serio?”

“Perché no? Un anno che non vi fate vedere. Pia ogni giorno mi viene a trovare. E tu, Sandro, non mi hai invitata al tuo matrimonio—ti vergognavi di tua madre paesana? E tu, Carlotta, da quando hai sposato Luca non ti sei più fatta viva. E perfino allora ti arrabbiaste, ricordi? Quando ti dissi che Tony non faceva per te. Avevo ragione…”

“Mamma, basta…” sussurrò Carlotta.

“Non sto bene. Vado a riposare,” mormorò Elisabetta, chiudendosi in camera.

Fuori iniziò la lite.

“È colpa tua!” sibilò Sandro. “Potevi venire a trovarla! Ora la casa è di Pia!”

“Sì, certo! Io lavoro giorno e notte! E tu e Marta cosa fate? Potreste occuparvi di lei!”

Gridavano, si interrompevano. Elisabetta ascoltava, seduta vicino alla finestra, gli occhi lucidi. Dov’erano i bambini che correvano scalzi in cortile? Dov’era la loro gentilezza, la cura l’uno per l’altro?

Quando rientrarono, li attendeva in piedi, composta, ma gli occhi tradiscono sempre il cuore.

“Mamma, stai meglio?” chiese Sandro.

“Sì. Ora so la verità. Non servo a nessuno. Il testamento? Ci sarà. Più tardi. Quando capirete a cosa vi serve questa casa: per amare o per dividere?”

A colazione regnava il silenzio, rotto solo dal tintinnio delle posate. Fu Carlotta a parlare per prima:

“Perdonaci, mamma… Abbiamo sbagliato. Verrò a trovarti, lo prometto. Siamo una famiglia…”

Elisabetta annuì. Un caldo silenzio avvolse la tavola.

Da allora, qualcosa cambiò—eppure no. Sandro compariva raramente, ma mandava soldi. Carlotta passava più spesso—minestre, marmellate, aiuto nell’orto. Ma del testamento nessuno parlò più.

E nessuno sapeva che giaceva già nel cassetto più basso della cassapanca, firmato e timbrato. Tutto era diviso a metà. Perché Elisabetta amava ancora i suoi figli. Anche se loro, a volte, lo dimenticavano.

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