Oggi ho deciso di portare la mia bambina a scegliere un cucciolo al canile, ma si è fermata davanti alla gabbia del cane più triste e non ha voluto proseguire senza di lui
Tenevo stretta la manina di mia figlia, Mia, di due anni, mentre varcavamo la soglia del rifugio cittadino. I raggi del sole mattutino si infiltravano dalle ampie finestre, illuminando le file di gabbie da cui occhi pieni di speranza ci osservavano. Nellaria si mescolavano i suoni tipici del posto abbai, miagolii lamentosi, il fruscio della paglia e il rumore degli artigli sul pavimento.
“Allora, piccola mia,” le dissi sorridendo, “scegliamo un nuovo amico?”
Mia annuì, gli occhi le brillavano di gioia. Sognava un cane da tanto tempo, incantata dalla vista dei bambini del vicinato che giocavano con i loro cuccioli nel cortile.
Nei miei sogni, quel giorno sarebbe andato diversamente. Immaginavo di adottare un cucciolo allegro un golden retriever o un labrador vivace che sarebbe cresciuto insieme a Mia. Obbediente, sano, bello il compagno perfetto.
Camminammo tra le gabbie dei cuccioli giocherelloni, dei cani adulti eleganti e dei gattini morbidi. Mi fermavo a indicare quelli più simpatici, ma Mia sembrava non notarli.
Poi, allimprovviso, si bloccò, come inchiodata al suolo.
Nellangolo più buio, una gabbia semivuota ospitava un cane che mi fece arricciare il naso senza volerlo. Un pitbull, in condizioni terribili pelo arruffato, pelle irritata, corpo esausto. Teneva la testa rivolta verso il muro, quasi vergognandosi.
“Mia, andiamo,” dissi in fretta. “Guarda, ci sono dei cuccioli adorabili laggiù.”
Ma lei si avvicinò alla gabbia, il nasino schiacciato contro le sbarre.
“Mamma, cosha? È malato?” sussurrò.
“Sì, piccola, è malato,” sospirò un volontario del rifugio. “È Daisy. È qui da più di sei mesi. Ma” esitò, lasciando la frase in sospeso.
Aggrottai le sopracciglia. Per me, i pitbull erano sempre stati simboli di aggressività e pericolo. E questo era anche malato. E se fosse contagioso? E se fosse imprevedibile?
“Mia, andiamo,” dissi con più fermezza. “Ci sono tanti altri cani qui.”
Ma la bambina si sedette davanti alla gabbia, come se fosse cresciuta lì.
“Lo voglio io,” disse con decisione.
“Cosa? No, Mia, è impossibile. Guardalo bene è molto malato. E poi, i pitbull sono pericolosi.”
Il volontario, che si presentò come Michele, scosse la testa con tristezza.
“Daisy non è cattiva. È solo spezzata. Lhanno abbandonata da cucciola perché la trovavano ‘bbrutta’ rispetto agli altri. Lhanno trovata malata, con infezioni. Una famiglia lha adottata, ma lha riportata dopo poche settimane dicevano che era troppo apatica.”
Sentii combattere dentro di me la compassione e la ragione. A casa avevamo una bambina piccola, ordine, serenità. Perché portarci problemi?
“Ha problemi alla pelle, serve unoperazione, molto costosa,” continuò Michele. “Il rifugio non può permettersela. Se non trova una famiglia entro il prossimo mese” tacque.
“La sopprimeranno,” mormorai quasi senza voce.
“Purtroppo sì.”
Mia intanto rimaneva seduta, gli occhi fissi su Daisy.
“Cagnolino,” chiamò dolcemente. “Cagnolino, guardami.”
Niente.
“Io sono Mia. E tu chi sei?”
Stavo per prenderla e portarla via, ma qualcosa mi fermò.
“Si chiama Daisy,” dissi.
“Daisy,” ripeté lei. “Che bel nome. Daisy, facciamo amicizia.”
E allimprovviso accadde il miracolo. La cane sollevò lentamente la testa e incrociò lo sguardo di Mia. Nei suoi occhi cera una tristezza così profonda che mi strinse il cuore.
“Posso accarezzarla?” chiese Mia.
“Non saprei” esitò Michele. “Ha paura, non si avvicina mai.”
“Possiamo provare?” La sua voce era così sincera che fu impossibile dirle di no.
Michele aprì con cautela la gabbia. Al rumore della serratura, Daisy si rannicchiò nellangolo, guaendo piano.
“Mia, no!” gridai.
Ma lei era già entrata. Si accovacciò al centro e tese la manina verso di lei.
“Non aver paura, Daisy,” sussurrò. “Non ti farò male, voglio solo essere tua amica.”
La cane la osservò per lunghi minuti. Poi, passo dopo passo, si avvicinò con estrema cautela. Annusò la sua mano a lungo e, infine, la leccò timidamente.
Mia scoppiò in una risata di gioia:
“Mamma, guarda! Mi ha baciato!”
Qualcosa cambiò dentro di me. Per la prima volta da mesi, negli occhi di Daisy brillò una scintilla di speranza. Guardava Mia con tale tenerezza che sembrava temere di farle del male, mentre leccava la sua manina con timidezza.
“Mamma,” disse Mia seria, accarezzandole la testa, “è così triste. Ha bisogno di una famiglia.”
“Non lho mai vista così,” commentò Michele, osservando la scena. “Guardate! Sta sorridendo! Davvero, guardate!”
Era vero lanimale sembrava illuminarsi dentro. La coda si mosse, e i suoi occhi non riflettevano più dolore.
“Ma è malata,” sospirai. “E le cure costeranno tanto”
“Le pagherò io,” dissi allimprovviso, quasi sorpresa di me stessa. “Tutto.”
Michele sorrise.
“Cè solo un ‘ma’. Per regolamento, gli animali devono completare il trattamento prima di essere adottati.”
Annuii, capendo la logica. Ma pochi giorni dopo, squillò il telefono.
“Linda?” La voce di Michele era preoccupata. “Puoi venire? Daisy ha smesso di mangiare, guaisce sempre. Crediamo che senta la mancanza di tua figlia.”
“Arriviamo,” risposi senza esitare.
Al rifugio, la cane era accucciata in un angolo, lo sguardo spento. Ma appena vide Mia, riprese vita si alzò, scodinzolò e guaì felice.
“Daisy!” gridò Mia, premendosi contro la gabbia. “Mi sei mancata!”
“Portatela a casa,” disse Michele deciso. “È uneccezione, ma starà meglio con voi. Potrete finire le cure privatamente.”
A casa, Daisy si nascose sotto il letto per ore. Iniziai a dubitare della scelta: e se fosse pericolosa? Ma Mia si sdraiò per terra e iniziò a raccontarle delle loro avventure, della pappa che avrebbero preparato, dove avrebbe dormito.
Alla sera, la cane uscì e si sdraiò accanto a loro. Di notte, mentre Mia dormiva sul divano, Daisy si accucciò ai suoi piedi.
“Be,” pensai guardandole, “pare che ora abbiamo davvero un cane.”
Loperazione andò bene. Le cure durarono un mese, con risultati sorprendenti. La malattia regredì, il pelo ricominciò a crescere, gli occhi brillavano. Ma il cambiamento più grande fu nel suo animo. Con Mia era pazientissima, si lasciava vestire, imboccare. Con me, riconoscente e fedele, come se sapesse che ave





