Una padella per due

Una padella per due

A volte le persone smettono di litigare. E non è più questione di fare pace. È la fine. Marco e Francesca avevano vissuto insieme vent’anni. Non un’eternità, ma neppure due spiccioli di tempo. All’inizio, l’amore. Poi i figli, poi le preoccupazioni senza fine. E alla fine, la stanchezza. Di sé stessi, e l’uno dell’altra.

All’inizio ci avevano ancora provato. Litigi, riconciliazioni, porte sbattute, tentativi di capirsi, perdonarsi, tornare indietro. Poi era arrivato il silenzio. Assordante, impenetrabile. Avevano smesso di dormire nello stesso letto, si erano divisi le stanze. Non erano nemici, ma neppure più famiglia. Solo due persone finite per caso nello stesso appartamento. E la cosa peggiore? Mangiavano separati. Lui la sua roba, lei la sua. I loro scaffali, i loro piatti. Le loro vite. Quella era la fine. Quella che non ha bisogno di annunci.

Di divorzio non parlavano. A che pro? Era già tutto chiaro. Marco aveva conosciuto una donna in un centro termale. Ci andava da solo, senza Francesca. La donna, Lucia, era premurosa, calma, paziente. Gli scriveva lettere, gli chiedeva come stava, gli mandava ricette. Francesca non aveva incontrato nessuno. La sua solitudine era silenziosa e stretta come un nodo. Ma non si lamentava. Viveva e basta. Come se aspettasse che passasse.

La mattina era come tutte le altre. La cucina illuminata da una luce gialla, l’odore dell’olio economico nell’aria. Francesca stava davanti ai fornelli. Su una minuscola padellina, un uovo solo. Non una frittata. Non una colazione per due. Solo un uovo. Piccolo, come la padella. Piccolo, come lei. Aveva addosso una vestaglia vecchia, i capelli arruffati dalla permanente. Teneva in mano una spatola e neppure guardava la padella. Stava lì, immobile.

Marco entrò in cucina. In silenzio. Mise su il bollitore, voleva farsi un tè. Dentro di sé aveva già deciso tutto. Sarebbe andato via. Presto. Doveva solo prendere le sue cose. Ma in quel momento lei si voltò. Lo guardò con una colpa così vulnerabile che lui quasi vacillò.

«Vuoi un po’ d’uovo?» gli chiese piano, tendendogli la piccola padella.

Fu come se avesse sbattuto contro un muro. Gli tornò tutto in mente. La stanza dell’università. Un solo materasso. Un bicchiere. Una forchetta per due. E la stessa ragazza nella vestaglia, ma allora rideva, era sfacciata, con una frangia da pony. Gli strizzava l’occhio e diceva: «Anche l’uovo è nostro, sai?»

Abbassò la padella. La abbracciò. La strinse forte, come la prima volta. E cominciò a dirle cose. Confuse, stupide. Che era stato un idiota. Che si era perso. Che si era dimenticato che lei era sua. Che tutto quello che sembrava grigio, in fondo, era importante. E forse piangeva. Lei non lo vedeva—lei era piccola, lui alto.

Sui fornelli, l’uovo era ancora lì. Il tuorlo, come un bottone d’oro. Un segno. Una salvezza.

Poi lui rimase. Ricominciarono a mangiare insieme. La sera tacevano. Poi ricominciarono a parlare. Piano. Con cautela. E non subito—a ridere di nuovo.

L’amore non è sempre fragoroso. A volte vive nel silenzio. In una padella. In una domanda: «Vuoi un po’ d’uovo?» Perché se te lo offrono, vuol dire che servi ancora.

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