Eccoti la storia adattata alla cultura italiana, con nomi, luoghi e riferimenti culturali modificati per renderla più autentica.
Una ragazza orfana cresciuta in un orfanotrofio trovò lavoro come cameriera in un ristorante prestigioso. Ma dopo aver accidentalmente rovesciato la zuppa su un cliente facoltoso, il suo destino cambiò radicalmente.
“Ragazza, ma ti rendi conto di cosa hai fatto?!” gridò Marco, agitando un mestolo. “Zuppa per terra, il cliente sporco, e tu stai lì come una statua!”
Giulia guardò la macchia scura sullabito costoso delluomo e sentì un nodo allo stomaco. Era la fine del suo lavoro. Sei mesi di faticatutto inutile. Ora quelluomo ricco avrebbe fatto una scenata, avrebbe chiesto un risarcimento, e lei sarebbe stata licenziata senza neanche un soldo di liquidazione.
“Mi dispiace tanto Pulirò subito,” balbettò, afferrando dei tovaglioli dal tavolo.
Luomo alzò una mano per fermarla:
“Aspetta. È colpa mia. Mi sono girato allimprovviso e mi sono distratto con una telefonata.”
Giulia si bloccò. In due anni di lavoro come cameriera, aveva sentito di tutto, ma mai un cliente che si scusava con lei.
“No, sono stata io sbadata” mormorò.
“Non preoccuparti. Labito si può lavare. Ma ti sei scottata?”
Scrollò la testa, ancora incredula. Luomo aveva circa quarantacinque anni, capelli brizzolati e occhiali. Parlava con calma, senza quel tono educato e falso che di solito usavano i clienti benestanti.
“Allora fammi cambiare, e tu portami unaltra zuppa. Stavolta fai attenzione,” sorrise leggermente.
Luca, il direttore di sala, apparve dal nulla.
“Signor Bianchi, mi scusi per lincidente! Ci penseremo noi al risarcimento per labito”
“Luca, non serve. Va tutto bene.”
Giulia portò una nuova porzione di zuppa, le mani ancora tremanti. Bianchi mangiò lentamente, osservandola di tanto in tanto con uno sguardo pensieroso.
“Come ti chiami?”
“Giulia.”
“Da quanto lavori qui?”
“Sei mesi.”
“Ti piace?”
Alzò le spalle. Cosa poteva dire? Un lavoro è un lavoro. Lo stipendio era decente, e il team dipendeva dalla fortuna.
“E dove lavoravi prima?”
La domanda era semplice, ma Giulia si irrigidì. Gli uomini ricchi non chiedono a caso del passato delle cameriere.
“In un altro bar,” rispose secca.
Bianchi annuì e non chiese altro. Pagò, lasciò una mancia generosa e se ne andò.
“Sei fortunata,” borbottò Marco. “Se ai miei tempi avessi avuto un cliente così, sarei già in pensione.”
Una settimana dopo, Bianchi tornò al ristorante. Prese lo stesso tavolo e chiese di essere servito da Giulia.
“Come stai?” le chiese mentre gli portava il menu.
“Bene.”
“Dove vivi?”
“Affitto una stanza.”
“Da sola?”
Giulia posò il menu con un po più di forza.
“E?”
Bianchi alzò le mani in segno di pace:
“Scusa, non volevo essere invadente. È solo che mi ricordi qualcuno.”
“Chi?”
“Mia sorella. Anche lei era indipendente alla tua età.”
Giulia sentì unaltra stretta al petto. “Era”quindi non cera più.
“Lavorava da qualche parte?”
“No,” fece una pausa. “È mancata tanto tempo fa.”
La loro conversazione fu interrotta da un altro cliente che chiese il conto. Quando Giulia tornò, Bianchi stava finendo la sua insalata.
“Posso venire qui spesso?” chiese. “Mi piace questo posto.”
“Certo, è un locale pubblico.”
“E se chiedessi di essere sempre servito da te?”
Giulia alzò le spalle. Il cliente ha sempre ragione, soprattutto se paga bene.
Bianchi iniziò a venire due volte a settimana. Ordinava sempre le stesse cose: zuppa, insalata, un secondo. Mangiava lentamente, a volte parlava al telefono a bassa voce. Il cliente perfetto.
Col tempo, iniziò a raccontare di sé. Possedeva una catena di ferramenta, viveva con la moglie in una villa fuori città. Non avevano figli.
“Di dove sei?” chiese una volta.
“Della città,” rispose evasiva.
“I tuoi genitori sono vivi?”
“No.”
“Da quanto sono mancati?”
“Non li ricordo. Sono cresciuta in un orfanotrofio.”
Bianchi si fermò, il cucchiaio sospeso sul piatto.
“Quale?”
“Listituto Santa Maria in via Garibaldi.”
“Capisco. Quanti anni hai?”
“Ventidue.”
“Quando sei uscita dallorfanotrofio?”
“A diciotto anni. Prima mi hanno dato un posto in dormitorio, poi ho affittato da sola.”
Bianchi smise di mangiare. La guardò in modo strano, come se la vedesse per la prima volta.
“Cè qualcosa che non va?” chiese Giulia.
“No, tutto bene. È solo che anche mia sorella è cresciuta in un orfanotrofio.”
“Poveretta.”
“Sì. Io allepoca avevo ventanni, studiavo alluniversità. Non potevo prendermela con mevivevo in un dormitorio, e la borsa di studio bastava a malapena.”
“E poi?”
“Poi era troppo tardi.”
Cera così tanto dolore nella sua voce che Giulia non chiese altro. Non era suo compito frugare le memorie altrui.
La settimana dopo, Bianchi le portò un regalouna scatolina elegante.
“Cosè?”
“Apri.”
Dentro cerano degli orecchini dorosemplici ma raffinati.
“Non posso accettarli.”
“Perché no?”
“Perché non ci conosciamo nemmeno.”
“Giulia, è solo un gesto. Senza secondi fini.”
“Perché?”
Esitò un attimo.
“Hai progetti per il futuro?”
“Quali progetti? Lavoro e risparmio per un appartamento.”
“Ti piacerebbe cambiare lavoro?”
“Per fare cosa?”
“Cè un posto da responsabile in uno dei miei negozi. Lo stipendio è il triplo di qui.”
Giulia si allontanò dal tavolo.
“E dovrei fare qualcosa in cambio?”
“Lavorare. Ricevere merce, supervisionare i commessi, preparare rapporti. Imparerai tutto.”
“Perché proprio io?”
“Perché sei responsabile. Sei qui da sei mesi senza lamentele, sei sempre gentile con i clienti. E perché voglio aiutarti.”
“Perché?”
Bianchi si tolse gli occhiali, li pulì con un tovagliolo.
“Mia sorella fu mandata in orfanotrofio a dodici annii nostri genitori morirono in un incendio. Io ero al terzo anno di università. Pensavo di resistere un paio danni, laurearmi, trovare un buon lavoro e portarla con me.”
“E poi?”
“Morì di polmonite, un anno prima che mi laureassi. Seppi del funerale solo un mese dopo.”
Giulia tacque. La storia era commovente, ma cosa centrava con lei?
“Ho pensato tutta la vita: se avessi agito prima, avessi lasciato gli studi, trovato un lavoro qualsiasi”
“E allora? Sareste sopravvissuti entrambi, invece di soffrire da soli?”
“Forse. Ma almeno sarebbe viva.”
“Non puoi saperlo.”
“Lo so. Lì la maltratt






