Oggi scrivo queste parole con il cuore pesante, ma anche con una strana serenità. Cinque anni fa il mondo di Leonardo Rossi crollò, per poi rinascere dalle ceneri con una luce nuova e abbagliante. Allora sua figlia Marta, un angelo di sei anni con gli occhi che brillavano come stelle, cominciò a perdere le forze. Il suo sorriso, che una volta illuminava anche le stanze più buie, si faceva sempre più raro. I medici, prima cauti, poi freddi come il marmo, pronunciarono la sentenza: un tumore al cervello. Una parola che ti spezza la voce solo a pronunciarla. Ma per Marta non fu una condanna, fu una sfida che affrontò con la grazia di una regina.
Io e mia moglie, Sofia, eravamo già a pezzi prima ancora di capire che il cuore può rompersi così. Facemmo di tutto per darle una chance di vita normale. Sognavamo che Marta potesse andare a scuola, imparare lalfabeto, contare fino a cento, leggere una favola prima di dormire. Cose banali per molti, per noi un miracolo.
Assumemmo una tutor, la signora Donatella, una donna dalle mani gentili e dal cuore saggio. Dopo due settimane ci avvisò: “Dopo ogni lezione, Marta ha un mal di testa terribile. Non è normale. Dovete farla visitare.” Sofia, con listinto di una madre, sentì che qualcosa non andava. La portammo allospedale quella stessa sera. Io, che di solito non mi faccio prendere dal panico, continuavo a ripetermi: “Sarà solo la crescita, passerà.” Non potevo neanche pensare che mia figlia fosse malata. Marta era il nostro miracolo, nata quando avevamo ormai perso ogni speranza. Ogni mattina dicevamo: “Grazie, Dio, per lei.” E ora sembrava che Dio volesse riprendersela.
Trascorremmo tre ore interminabili in ospedale. Il medico ci fissò con occhi gelidi. Il giorno dopo, lasciata Marta con la nonna, tornammo per i risultati. Ci accolsero con silenzio e uno sguardo che diceva tutto. “Vostra figlia ha un tumore al cervello. La situazione è grave.” Sofia crollò, io rimasi di pietra. Non poteva essere vero. Corremmo da un medico allaltro, ma la diagnosi era sempre la stessa.
Iniziò la battaglia. Vendemmo tutto: lazienda, la casa, lauto. Andammo in America, in Germania, in Israele. Pagammo cure sperimentali, cliniche délite, speranze. Ma la medicina non poté far nulla. Marta si spegneva lentamente, ma sempre con il sorriso.
Una sera, mentre il sole tingeva la stanza doro, Marta mi sussurrò: “Papà, mi avevi promesso un cagnolino per il mio compleanno ci giocherò ancora?” Il cuore mi si strappò. Le presi la mano e dissi: “Certo, piccola. Te lo regalerò. E ci giocherai, lo prometto.”
Quella notte Sofia pianse senza sosta. Io fissavo il buio dalla finestra, pregando: “Perché la prendi? È così buona, così luminosa Prendi me, non lei!”
Il mattino dopo entrai nella sua stanza con un cucciolo di golden retriever, occhi dolci come miele. Il cane le saltò sul letto e Marta rise per la prima volta da mesi. “Lo chiamo Zeus!” esclamò, abbracciandolo. Da quel giorno furono inseparabili. Zeus divenne la sua ombra, il suo protettore. I medici le davano sei mesi, ma visse otto. Forse fu lamore per Zeus a darle quella forza.
Quando Marta non riusciva più ad alzarsi, sussurrò al cane: “Presto me ne andrò, Zeus. Ma voglio che tu mi ricordi.” Gli mise al collare il suo anellino doro, tra le lacrime. “Ora non mi dimenticherai.”
Pochi giorni dopo Marta ci lasciò, tra le nostre braccia, con Zeus accucciato accanto. Sofia impazzì dal dolore. Io mi persi. E Zeus smise di mangiare, aspettandola. Una settimana dopo sparì. Lo cercammo dappertutto: era lultimo dono di Marta, la sua anima in forma di cane.
Passò un anno. Aprii un banco dei pegni e una gioielleria, chiamati “Zeus”. In ogni gioiello cera un pezzo di lei.
Un giorno la mia assistente, Anna, mi chiamò: “Cè una bambina qui, è in lacrime.” Ingresso, vidi una ragazzina di nove anni, vestita di stracci, con gli occhi identici a quelli di Marta. “Mi chiamo Giulia,” singhiozzò. “Ho un cane, Rex lho salvato dalla strada. Ora è stato avvelenato. Non ho soldi per il veterinario. Prendete questo anello, per favore!”
Nella sua mano cera lanello di Marta. Caddi in ginocchio. “Mettilo,” le dissi, restituendoglielo. “La sua padrona sarebbe felice che lo ami come lei amava Zeus.”
Andammo a prendere Rex, in una cantina buia. Era scheletrico, ma quando mi vide, mi leccò la mano. “Zeus” mormorai. In clinica lo salvarono. Sofia abbracciò Giulia: “Vieni da noi, ora.”
Giulia venne ogni giorno. Sofia la vestì come una principessa. Ma un giorno non si presentò. Zeus si agitò, annusando laria. Andammo a cercarla: la trovammo picchiata dalla zia ubriaca. “Ve la prendete voi, allora!” urlò la donna.
Portammo Giulia in ospedale, poi a casa nostra. Con le nostre conoscenze, ottenemmo laffidamento. Giulia divenne nostra figlia, non sulla carta, ma nel cuore.
E Zeus? Sta sempre ai suoi piedi. Quando Giulia gli chiede: “Ti ricordi di lei, vero? Di Marta?” Lui le lecca la mano, come per dire: “Sì. Lamore non muore, cambia solo forma.”
Così, dal dolore, è nato un miracolo. Un miracolo chiamato speranza.