**Diario di Alessia**
Dicono che io abbia un “dono”, ma l’ho sempre considerato una punizione. Procediamo con ordine.
Mia madre mi lasciò all’orfanotrofio a un mese di vita. Forse sapeva di questo “dono” e non volle crescerlo in me. Crebbi senza genitori. Fu la mia educatrice, Margherita Lombardi, a notare per prima la mia particolarità. Vide un bambino rubarmi il giocattolo e, come disse lei: “Giuro che Artemio volò sul tappeto all’altro lato della stanza, mentre tu riprendevi il tuo giocattolo”.
Margherita fu gentile: capì che ero diversa e che, se scoperta, mi avrebbero usata per esperimenti. “Non voglio che ti portino in laboratorio”, ripeteva. Mi aiutò a controllare le mie capacità. Se mi arrabbiavo, spostavo oggetti o persone. Sentivo i campi bioenergetici, capivo le persone senza parlare. Sembra utile? A me pareva che tutti percepissero la mia diversità e mi evitassero. Nessuna famiglia mi adottò mai, nonostante desiderassi affetto e una vera madre.
Avevo un’amica nell’orfanotrofio: Caterina, che chiamavo affettuosamente “Rina”. Le piaceva il nome. Era la mia famiglia, e io la sua. Sapeva del mio dono e non lo sfruttò mai. Ne avevo tanta gratitudine. Rina, già quindicenne, disperava di trovare una famiglia. Nessuno adotta i “grandicelli”.
Un giorno Rina irruppe nella stanza, occhi fiammeggianti. “Alessia! Mi adottano! Avrò una famiglia!” Mi abbracciò, trascinandomi fuori per presentarmi i genitori. Davanti all’ufficio della direttrice, vidi la coppia.
Ora, ogni sera quando chiudo gli occhi e sento le voci rassicuranti di Mamma Marina e Rachele che chiacchierano in cucina, ringrazio quel dono che prima maledicevo, perché mi ha dato la forza per salvare la mia sorella del cuore e finalmente saperla usare per proteggere chi amo.
UNICA
