**Il Padre per un’Ora**
Marco notò il ragazzino per la prima volta accanto al bancone del pane in una piccola bottega alla periferia di Verona. Stava lì, immobile, non fissando le pagnotte o i panini, ma guardando oltre gli scaffali, come se aspettasse che qualcuno emergesse dal nulla. Qualcuno di importante. Qualcuno che forse non sarebbe mai arrivato. Il bambino era magrolino, con un piumino logoro e strappato, le scarpe consumate che lasciavano intravedere calzini grigi. Il berretto gli scivolava su un lato, i guanti erano larghi, come se fossero passati per troppe mani. Le guance arrossate dal freddo, le labbra screpolate.
I suoi occhi non erano quelli di un bambino. Non imploranti, non supplici. Erano gli occhi di un adulto che aveva visto troppo—diretti, pesanti, carichi di una diffidenza matura. Come se avesse già capito tutto, e ora osservasse soltanto, senza speranze inutili.
Marco prese una pagnotta e passò oltre. Ma dopo pochi passi si voltò. Il bambino non si era mosso. Era ancora lì, radicato al pavimento di piastrelle, come se credesse che, restando fermo, qualcuno sarebbe finalmente arrivato. Che qualcosa sarebbe cambiato.
Assomigliava a qualcuno. Solo più tardi Marco lo capì: un ragazzino dell’orfanotrofio dove aveva fatto volontariato anni prima. Anche quello aveva lo stesso sguardo—come se l’anima guardasse in silenzio, senza chiedere, senza credere.
Dieci minuti dopo, si incrociarono alla cassa. Il bambino teneva due caramelle tra le mani, senza sacchetto, senza carrello. La cassiera gli disse qualcosa—forse che i soldi non bastavano. Lui non protestò, rimise giù una caramella e pagò per l’altra. Tutto con calma, precisione, gesti da adulto. Come se sapesse già che non si può avere tutto. Che bisogna scegliere tra ciò che serve e ciò che si può avere.
Allora Marco fece un passo avanti.
«Ascolta, posso comprarti qualcosa? Pane, yogurt, magari del latte? Non preoccuparti, non voglio niente in cambio.»
Il bambino lo fissò. Uno sguardo stanco di bugie.
«Perché?» chiese.
Senza diffidenza. Solo la constatazione: nulla è mai gratis.
Marco esitò. Non perché non avesse una risposta, ma perché sapeva che era troppo complicato.
«Così, perché posso. Perché… una volta hanno aiutato anche me.»
Il bambino tacque. Poi annuì lentamente.
«Va bene. Allora delle patate lesse. E una salsiccia. Senza senape. Ha un sapore da grandi.»
Uscirono dal negozio. Marco gli porse il sacchetto, cercando di sembrare disinvolto.
«Dove abiti?»
«Non lontano. Ma ora non voglio tornare a casa. La mamma dorme. È stanca. A volte dorme tanto. Io preferisco la panchina. Si vedono le persone. È più tranquillo.»
Si sedettero su una fredda panca alla fermata dell’autobus. Il bambino mangiò lentamente. Teneva la salsiccia con entrambe le mani, mordicchiando con cura, come se volesse far durare il pasto. Non mangiava da bambino, ma da adulto che sa ringraziare in silenzio.
«Mi chiamo Edoardo. E lei?»
«Marco.»
«Lei potrebbe… fare il papà per un’ora? Senza promettere niente. Solo stare qui, come se andasse tutto bene. Come se io avessi qualcuno.»
Marco annuì. Dentro di sé, qualcosa si strinse. Non se l’aspettava, ma non poteva dire di no.
«Posso.»
«Allora mi dica di mettermi il berretto. E mi sgridi per la scuola. La mamma lo faceva. Quando non dormiva.»
Marco sorrise, prima un po’ forzato, poi con sincerità.
«Edoardo, dove hai lasciato il berretto? Vuoi prenderti un raffreddore? E perché non hai abbottonato il cappotto? E a scuola come va?»
«In matematica ho sei. Ma in condotta otto. Ho aiutato una signora ad attraversare la strada. Ho fatto cadere la sua borsa, ma poi ho raccolto tutto. Lei ha detto che l’importante è provarci.»
«Bravo. Ma mettiti il berretto. Sei l’unico te stesso che hai. Devi prenderti cura di te.»
Edoardo sorrise. Calmo. Adulto. Finì la salsiccia, si pulì le mani con un tovagliolo e lo buttò nel cestino. Poi guardò Marco.
«Grazie. Lei non è come gli altri. Non ha compassione, non dà consigli. È come se… tutto fosse normale.»
«Se domani sarò qui, verrai?»
«Non so. Forse la mamma avrà una giornata difficile. Forse sì. Mi ricorderò di lei. I suoi occhi non mentono.»
Si alzò, salutò e se ne andò. Senza voltarsi. Come chi sa che nessuno lo rincorrerà. Camminava leggero, ma con una rigidità interna. Come se tenesse tutto il calore dentro, per paura che si disperdesse nell’aria.
Marco rimase. Aspettò un po’. Poi buttò via il bicchiere del caffè e guardò lontano. Avrebbe voluto chiamarlo. Ma non osò.
Il giorno dopo tornò. E quello dopo ancora. E una settimana dopo. Anche se nevicava, anche se faceva freddo. Tornava. Non per aspettare. Ma perché aveva promesso. Anche se a parole no.
Edoardo non veniva sempre. A volte sì, a volte no. Marco sedeva sulla stessa panchina, fingendo di leggere. Ma ogni volta che il bambino riappariva—in quella figura sottile, nei suoi passi lenti, nel modo in cui abbassava lo sguardo—qualcosa si scioglieva nel suo petto. Come se qualcosa di congelato da anni cominciasse finalmente a scongelarsi.
Una volta Edoardo arrivò con due bicchieri di tè. Di plastica, avvolti in un tovagliolo.
«Oggi lei è stato il papà. Adesso io sarò il figlio. Va bene?»
Marco annuì. Non trovò le parole. Aveva un nodo in gola.
A volte basta un’ora. Per credere che anche tu sei importante per qualcuno. E che non tutto è perduto.