Vacuità dell’anima: Una storia di vita

La Miseria dell’Anima: La Storia di Ginevra di Roma

Ginevra crebbe come l’erba sul ciglio della strada — ignorata, selvatica. Nessuno la educò, la coccolò o la consolò. I vestiti erano di seconda mano, quando non erano stracci sformati che lasciavano intravedere le ginocchia scheletriche. Le scarpe, sempre bucate e troppo grandi. La madre le tagliava i capelli “a scodella”, per non perdere tempo con le acconciature, ma quelli si ribellavano, spuntando in ogni direzione come una protesta silenziosa.

All’asilo non ci andò mai — i genitori avevano ben altro a cui pensare. L’unica loro preoccupazione era dove trovare da bere. Il padre, un ubriacone violento; la madre, Rosina, perennemente avvolta nel fumo e nei postumi della sbornia. Ginevra si nascondeva nei portoni quando i genitori perdevano il controllo. Scappare significava evitare le botte. Se non faceva in tempo, poi copriva i lividi con la crema rubata in farmacia. I vicini sospiravano, scuotendo la testa: “Rosina è sempre stata una testa vuota, ma da quando si è messa con quel delinquente, è finita male”. Ginevra la compativano. Le davano da mangiare, le regalavano vestiti. Peccato che la madre vendesse tutto per comprarsi da bere. Così, la bambina rimase sempre vestita di stracci.

Quando arrivò il momento di iniziare le scuole, Ginevra, contro ogni previsione, si aggrappò ai libri come a un salvagente. Leggere diventò il suo rifugio, un posto dove nessuno la picchiava, gridava o umiliava. Divorava libri, passava le ore in biblioteca, alzava la mano in classe sperando che qualcuno notasse la sua voce — sommessa, ma determinata.

I bambini, però, sono crudeli. Soprattutto con chi è diverso. Ginevra, vestita di pezze, con quella testa a scodella, si guadagnò subito il soprannome: “La Stracciona”. Peggio ancora, i genitori degli altri vietavano ai figli di avvicinarsi: “Figlia di un’alcolizzata, chissà che brutte abitudini ha”. Gli insegnanti, pur riconoscendo il suo talento, tacevano. Era più semplice ignorarla che difendere una ragazzina senza famiglia né protezioni. E così Ginevra crebbe — sola contro tutti.

La sua salvezza fu un vecchio ulivo nel parco vicino alla fontana. Sotto le sue fronde, creò un rifugio. Portava lì i libri, leggeva e sognava. A volte ci passava anche la notte, se a casa la situazione era troppo pesante. Gli unici che la ascoltavano erano i randagi — gli unici che non la tradirono mai.

Il padre morì quando Ginevra compì quattordici anni. Un’altra sbronza, finita male — lo trovarono gelato in un fosso. Al funerale c’erano solo Rosina e Ginevra. La ragazza non provò dolore, ma vergogna e sollievo. La madre, dopo quel giorno, perse definitivamente il controllo. Crisi di rabbia alternate alla nausea da sbornia. Lavorare era fuori questione. Per non morire di fame, Ginevra puliva i palazzi. Con i pochi euro guadagnati comprava libri di medicina usati — sognava di diventare dottoressa. Voleva salvare la madre dal baratro in cui era caduta.

A scuola, però, le angherie continuarono. Un giorno, in ritardo a lezione, le cadde un libro di psichiatria. Per disgrazia, proprio accanto a lei c’era Beatrice — la reginetta della classe, bella e velenosa come una vipera. Raccolse il libro, lesse il titolo e annunciò a gran voce:

“Psichiatria? Allora non sei solo una stracciona, sei pazza come tua madre!”

Ginevra non resse. Scappò piangendo dal cortile fino al suo ulivo. Là, cadendo sull’erba ghiacciata, lasciò uscire tutte le lacrime represse. “Perché sono così cattivi? Cosa gli ho fatto?”, sussurrava, appoggiandosi al tronco.

Fu allora che vide il cane. Camminava sul ghiaccio sottile del laghetto quando, all’improvviso, sprofondò. Ginevra urlò e corse per salvarlo. Si gettò sul ghiaccio, strisciò, afferrò la bestia — e nello stesso istante finì sott’acqua anche lei. Il freddo le strappò il respiro, la punse nel petto. Lottò — per il cane, per se stessa, per chiunque avesse mai amato.

Quando le forze stavano per abbandonarla, e il ghiaccio le sembrò una tomba, qualcuno la tirò fuori. Era Lorenzo, il nuovo arrivato in classe, trasferitosi da poco da Firenze. Bello, intelligente, taciturno — tutte le ragazze lo desideravano. Fu lui a tendere la mano a Ginevra.

“Vieni. Congelerai qui. Mia madre è una dottoressa, ti aiuterà.”

Prese con sé anche il cane. Le diede rifugio. E il giorno dopo entrò in classe con Ginevra al fianco. Beatrice gli si avvicinò, indignata:

“Dici sul serio? Ma è una stracciona!”

“La miseria è solo dell’anima,” rispose lui, calmo. “Non puoi nasconderla dietro vestiti o trucco. Più la nascondi, più si vede.”

Beatrice impallidì e scappò. In classe scese il silenzio. E Ginevra, per la prima volta, capì di non essere più sola. Adesso aveva un amico. E un cane, Leo, che aveva salvato. Soprattutto, però, aveva una possibilità. Una possibilità per una vita nuova.

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