La suocera si è offesa per l'”elemosina”: ha considerato i mobili vecchi un insulto
Sono sposata da tre anni. Bambini ancora non ce ne sono, anche se l’idea di diventare madre mi frulla in testa da un po’. Tutto questo tempo l’abbiamo passato in un appartamento in affitto nel centro di Firenze — non perché non potessimo permetterci di meglio, ma perché mia suocera, Livia Romano, ci ha sempre sbattuto la porta in faccia quando chiedevamo di usare il suo monolocale, rimasto vuoto per anni.
Ha cresciuto mio marito, Matteo, da sola. L’appartamento gliel’aveva dato la fabbrica di maglieria dove aveva lavorato vent’anni. Poi si è risposata.
«Il mio patrigno era una brava persona, davvero un padre per me», raccontava Matteo. «Ma con mia madre litigavano in continuazione. Lei si lamentava sempre che i soldi non bastavano, che non aveva mai abbastanza di niente.»
Il patrigno aveva una figlia dal primo matrimonio. Voleva adottare Matteo, ma Livia si oppose con tutte le forze — temeva di perdere i sussidi statali. Quando si trasferì dal nuovo marito, chiuse a chiave il vecchio appartamento. Non aveva nemmeno un minimo di ristrutturazione, ma decise di non affittarlo — «tanto che senso ha?», diceva.
Dopo il matrimonio, le chiedemmo se potevamo viverci — modesto, ma pur sempre un tetto nostro. Lei, però, non volle nemmeno sentirne parlare:
«Sto per divorziare», annunciò. «Lui è avaro, pigro, incapace. Stiamo insieme solo per interesse. Una volta divorziati, dove vado se voi vi siete già sistemati lì?»
E infatti, poco dopo chiese il divorzio. Ma di andarsene di casa non ne aveva alcuna intenzione. Poi arrivò la disgrazia: il patrigno morì. Livia era convinta che il bilocale sarebbe diventato suo. Invece scoprì che l’eredità era tutta della figlia di lui.
Intanto, morì mia nonna, che mi aveva lasciato il suo accogliente bilocale. Io e Matteo iniziammo a ristrutturarlo, pronti per trasferirci. Ma tutto venne spazzato via da un dramma montato da Livia.
«Io l’ho accudito mentre quella, sua figlia, non si faceva nemmeno vedere! Gli cucinavo, gli portavo le medicine. E adesso lei, quella Beatrice, se la godrà a Milano mentre io torno in un monolocale umido! E questa è giustizia?!», urlava al telefono.
Tutti i suoi problemi se li era creati da sola: rifiutò l’adozione, non volle vivere con noi. Discutere era inutile. Tornò in quel monolocale vuoto e trascurato. Nessun mobile, nessun comfort. Solo mura spoglie.
A Matteo fece pena. Decise di sistemare un po’ la casa, almeno rifare l’intonaco. Io, invece, proposi di portare lì i mobili della nonna — tanto li avremmo cambiati con nuovi. Erano puliti, solidi — anche se non nuovissimi.
Livia aveva portato via alcune cose dalla casa del marito defunto, ma erano per lo più elettrodomestici fissi, che non aveva senso smontare. E l’erede, quella Beatrice, non era certo una sprovveduta: non cedette niente di valore.
Quando le portammo i mobili, la suocera fece una scenata:
«Cos’è questa roba?! Mi avete portato la robaccia della cantina?! Mio marito è morto e voi mi trattate come una mendicante! Per voi tutto nuovo, per me la spazzatura! Vergognatevi!», urlò nel palazzo.
Eppure il divano della nonna aveva appena quattro anni e lei ci aveva dormito a malapena. I mobili nuovi ce li avevano regalati i miei genitori. Perché pensasse che dovessimo arredarle tutta casa, resta un mistero. Anzi, pretese che riportassimo tutto indietro. E iniziò a rimproverarci: «Avete i soldi per i lavori, ma per vostra madre no!»
Ci voltammo e ce ne andammo. I mobili rimasero nel corridoio. Pensavo che Matteo sarebbe tornato il weekend a riprenderli. Invece no. La suocera chiamò un vicino e li trascinò dentro da sola. Immagino abbia capito che fare la difficile non conviene, specie quando il portafoglio è vuoto.
E così vive. Tra risentimenti, mobili altrui, e una dignità tutta sua. Peccato che la dignità, a quanto pare, non cucini la cena e non riscaldi il letto la notte.