Vent’anni di dolore e delusione: la mia vita trasformata in un inferno dalla famiglia dell’ex marito.

Vent’anni di dolore e delusione: come la famiglia del mio ex marito ha trasformato la mia vita in un inferno

Quando chiusi per l’ultima volta la porta della mia casa romana, mi sembrava di aprire un capitolo nuovo e glorioso della mia vita. Non stavo solo trasferendomi all’estero, ma andavo a Milano per diventare moglie. Non una moglie qualunque, ma la compagna di un uomo rispettato: ebreo, divorziato, colto e maturo, che aveva abbandonato la sua vecchia famiglia per me. Il matrimonio nella chiesa di San Babila, sotto i portici del centro meneghino, sembrava l’inizio di una favola. L’invidia delle amiche, l’ammirazione dei conoscenti, i ricevimenti mondani, i buffet, le foto sui giornali: sembrava che il destino mi avesse finalmente donato ciò che ogni donna sogna. Mai avrei immaginato che tutto questo sarebbe stato la copertina lucente di anni di dolore, tradimenti e solitudine.

Samuele era più anziano di me di venticinque anni. Non avevamo figli: io vicina ai quarant’anni e lui che già cominciava a perdere la salute. Le sue figlie adulte, mie coetanee, Caterina e Francesca, mi accolsero da subito con freddezza e disprezzo. Ai miei occhi, sembravano arroganti e viziate, allungavano le mani su tutto. Venivano a casa nostra e se ne andavano con quadri, servizi di piatti, statuette. E non chiedevano mai il permesso. Samuele taceva e permetteva che ci derubassero — la sua nuova moglie e la sua casa. Viveva con me, ma continuava a pagare gli alimenti alla sua ex moglie. Sì, tutto era scritto nel contratto matrimoniale. Mentre noi vivevamo modestamente in un appartamento affittato, la sua ex godeva del villino di famiglia e degli accrediti mensili della sua pensione. Io gli preparavo minestrine, gli stavo accanto quando non riusciva ad alzarsi dal letto, e i soldi finivano nel passato.

Quando si ammalò, la nostra vita lussuosa si concluse. Niente più coste o viaggi, solo pastiglie, flebo e umiliazioni. E dopo la sua morte? Le figlie irruppero in casa nostra e portarono via tutto ciò che consideravano ‘di famiglia’. Sfondarono l’anta di un armadio, si portarono via una poltrona, persino un bollitore. Io tacevo. Non avevo la forza di combattere. Mi era rimasto solo il cognome ebraico e un piccolo appartamento a Garbatella, a Roma, affittato. Solo quei soldi mi permettono di sopravvivere, perché a Milano sono una delle tante bisognose che vivono in un appartamento comunale. I servizi sociali locali mi controllano continuamente, verificando che non menta o che non lavori di nascosto. Vivo come sotto una lente d’ingrandimento, tra volti sconosciuti, nel freddo e in una lingua straniera.

E quando torno a Roma, nel mio piccolo appartamento, i vicini mi guardano come ‘la milanese’, con un pizzico di invidia. Nessuno sa che non vengo per riposarmi, ma per respirare. Qui, nel mio angolo, mi sento viva. Qui non vengo rimproverata, derubata, né seguita ad ogni passo. Qui è la mia tranquillità. E anche se le amiche mi chiamano, invidiose della mia ‘felicità francese’, io so com’è davvero Milano: non una città dell’amore, ma una città della solitudine.

Non ho figli, né parenti. Solo amiche che vengono in visita — per pernottare e sfruttare un tetto ‘europeo’ gratuito, per poi scomparire. Resta Skype, le chiacchierate al telefono fisso e il vuoto. Vivo in bilico — tra due paesi, due vite, due mondi. A volte vorrei mollare tutto e tornare definitivamente. Ma dove? Da chi? Tutto è già vissuto, perso, tradito. Restano solo la pazienza e la speranza.

Forse il destino si impietosirà. Forse, almeno durante la vecchiaia, vivrò come ho sempre sognato. Per ora — resisto. Stringendo i denti. Come un Gavroche. A Milano.

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