Venti anni di dolore e delusione: come la famiglia dell’ex marito ha trasformato la mia vita in un inferno
Quando ho chiuso per l’ultima volta la porta della mia casa di Roma, mi sembrava di aprire un nuovo e splendido capitolo della mia vita. Non stavo partendo semplicemente per l’estero, ma mi trasferivo a Venezia per sposarmi. Non sarei stata una semplice moglie, ma la moglie di un uomo rispettabile, ebreo, divorziato, colto e maturo, che aveva lasciato la sua famiglia precedente per me. Il matrimonio nella chiesa di San Marco, sotto le volte della città sull’acqua, sembrava l’inizio di una favola. L’invidia delle amiche, l’ammirazione dei conoscenti, ricevimenti mondani, buffet, foto sulle riviste: sembrava che il destino mi stesse finalmente regalando ciò che ogni donna desidera. Non avrei mai immaginato che tutto questo fosse una copertina patinata che nascondeva anni di dolore, tradimenti e solitudine.
Giuseppe aveva venticinque anni più di me. Non avevamo figli: io avevo quasi quarant’anni e lui aveva iniziato a soffrire di salute precaria. Le sue figlie adulte, Caterina e Francesca, mie coetanee, mi hanno accolto fin da subito con disprezzo e freddezza. Ai miei occhi erano arroganti, viziate, sempre pronte ad allungare le mani. Venivano a casa nostra e se ne andavano con quadri, servizi di porcellana, statuette, senza mai chiedere il permesso. Giuseppe taceva. Permetteva loro di saccheggiare la nostra casa e la nostra vita insieme, senza dire una parola. Viveva con me, ma continuava a pagare il mantenimento alla sua ex-moglie. Sì, tutto ciò era previsto nel contratto matrimoniale. Mentre noi vivevamo in un appartamento modesto, la sua ex-moglie si godeva la villa di famiglia e i versamenti mensili dalla sua pensione. Io gli cucinavo zuppe, gli sedevo accanto quando non poteva alzarsi dal letto, e il denaro andava al passato.
Quando si è ammalato, la nostra vita lussuosa è finita. Non c’erano più viaggi o vacanze al mare: solo pillole, flebo e umiliazione. E dopo la sua morte? Le sue figlie si sono precipitate nella nostra casa e hanno portato via tutto ciò che consideravano ‘di famiglia’. Hanno rotto la porta dell’armadio, portato via una sedia, persino il bollitore. Sono rimasta in silenzio. Non avevo la forza di lottare. Tutto quello che mi è rimasto è il cognome ebraico e un piccolo appartamento a Testaccio, a Roma, affittato. Solo quei soldi mi permettono di sopravvivere, perché a Venezia sono solo una delle tante persone bisognose, che vive in un appartamento comunale. I servizi sociali locali controllano costantemente se sto mentendo, se sto guadagnando segretamente da qualche parte. Vivo sotto una lente d’ingrandimento, tra facce estranee, nel freddo e in una lingua estranea.
Quando ritorno a Roma, nel mio piccolo appartamento, i vicini mi guardano come una ‘veneziana’, con un po’ di invidia. Nessuno sa che non vengo per riposare, ma per respirare. Qui, nel mio angolo, mi sento viva. Qui nessuno mi rimprovera, non mi derubano, non controllano ogni mio passo. Qui c’è la mia pace. E ad ogni telefonata delle amiche che invidiano la mia ‘felicità veneziana’, io so com’è Venezia in realtà: non una città dell’amore ma della solitudine.
Non ho figli. Non ho parenti. Solo amiche che vengono a trovarmi — per passare la notte e approfittare di un tetto ‘europeo’ gratuito. Poi scompaiono. Rimangono Skype, le conversazioni al telefono fisso e il vuoto. Vivo ai margini, tra due paesi, due vite, due mondi. A volte vorrei lasciare tutto e tornare per sempre. Ma dove? Da chi? Tutto è già vissuto, perso, tradito. Mi rimane solo una cosa: la pazienza.
Forse il destino avrà pietà di me. Forse, almeno in vecchiaia, vivrò come ho sempre sognato. Per ora tengo duro, stringendo i denti. Come un combattente. A Venezia.”