Vieni quando puoi

**Diario di un uomo – Riflessioni su una storia d’amore e scelte**

Avevo appena spento la luce quando il telefono squillò, rompendo il silenzio della nostra casa a Firenze.

“Pronto, Elisa?” La voce dall’altra parte mi fece accapponare la pelle. Era lui, Riccardo. L’uomo che avrei voluto dimenticare, ma che mi perseguitava nei pensieri da sei mesi. Il cuore mi batteva così forte che avrei potuto svegliare mio marito, se non fosse stato per il brusio della televisione accesa.

“Mi sei mancata. Non potevo più aspettare. Pensavo continuamente a te. Dobbiamo vederci,” disse quella voce calda, quella voce che mi faceva tremare le ginocchia.

Mi alzai dal letto, chiusi la porta alle mie spalle e mi appoggiai al muro dell’ingresso. Le gambe erano diventate di gelatina.

“Elisa, ci sei?” continuava a chiedere.

Dovevo riattaccare. Ma non lo feci. Avevo passato mesi a cercare di cancellare quella notte pazza, a convincermi che il mio matrimonio con Marco era solido. Ci conoscevamo dalle scuole medie. Lui era sempre stato il secchione della classe, quello con gli occhiali spessi e i voti altissimi in matematica. Lo chiamavano “il Professore”, e non a caso: serio, metodico, prevedibile.

Non era il tipo di uomo che mi faceva battere il cuore da ragazzina. Mi piacevano quelli carismatici, quelli che sapevano farmi ridere. Ma un giorno ci incontrammo per caso a Roma, dove lui studiava ingegneria. Aveva sostituito gli occhiali con le lenti a contatto, e per la prima volta pensai: “Non è male, sai?”

Ci scambiammo i numeri, ma non ci pensai più. Finché, qualche settimana dopo, mi chiamò per uscire. Mia madre mi aveva messo pressione: “Vai, sennò resterai zitella.” E così accettai.

Marco era affidabile, lavorava per un’azienda importante, avremmo avuto una vita tranquilla. “Prendilo e modellalo come vuoi,” mi disse mia madre. E io lo feci.

La nostra relazione era stabile. Se litigavamo, era sempre colpa mia. Poi nacque nostra figlia, Sofia. Le nostre famiglie ci aiutavano volentieri, ma un secondo figlio non lo volli mai. Tra noi non c’era passione. Marco era prevedibile anche a letto. A volte mi chiedevo come avessimo fatto ad avere una figlia, con quella routine.

Sofia, ormai ventenne, studiava design a Milano e viveva con lo stile spensierato di chi è viziato dalle nonne. “Non mi servono soldi, mamma,” rideva, “le nonne fanno a gara a chi mi riempie di più il portafoglio!”

Io e Marco andavamo avanti così. Fino a sei mesi fa, quando diventai direttrice della clinica. Iniziò una vita fatta di riunioni, conferenze, viaggi.

E fu a una di quelle conferenze a Verona che incontrai Riccardo. Era giovane, affascinante, circondato da donne che lo corteggiavano senza vergogna. Io avrei voluto evitare il festino finale, ma la mia collega mi convinse: “È lì che nascono le occasioni importanti.”

E rimasi.

Dopo ore di discorsi noiosi, il vino aveva trasformato quei medici seri in un gruppo di allegri cantastorie. Io non bevvi, ma ridevo delle loro battute. Poi iniziarono i balli, e io cercai un angolo per svignarmela.

“Anche a te annoia questa festa?” Riccardo mi si avvicinò. “Scappiamo?”

E così feci.

Salimmo in ascensore, attraversammo corridoi infiniti con tappeti rossi. Lui parlava della sua clinica, poi mi chiese: “Vieni da me? Ho una bottiglia di vino buono e nessuno con cui berla.”

Non so perché accettai. Forse perché mi piaceva. O forse perché sentivo che anch’io gli piacevo.

Quando mi baciò, non lo respinsi. E quando mi svegliai nel suo letto, capii quanto la mia vita con Marco fosse grigia in confronto. Con Riccardo era tutto diverso: un turbine di emozioni che non credevo possibili.

Ma tutto finì. La conferenza era terminata, dovevamo tornare alle nostre vite. Lui mi chiese di restare ancora un giorno. “Lascia perdere i biglietti, ne compriamo altri,” disse.

Ma io rifiutai. “Sono sposata.”

“Non sei felice con lui, lo sento.”

“No.” Mi vestii in fretta. “Devi andare, il tuo treno parte tra poco.”

Non gli chiesi se fosse sposato. Che importava? Quella era l’ultima volta che ci vedevamo. O almeno, così credevo.

Tornai a Firenze decisa a dimenticare. Marco mi venne a prendere in stazione, mi chiese della conferenza, ma io non lo ascoltai. Quella notte, quando cercò di avvicinarsi, mi scostai. “Sono stanca,” mentii.

Passarono mesi. Ricordavo Riccardo, ma il rimorso svaniva. Fino a quella telefonata.

“Non posso vivere senza di te,” disse. “Sono all’Hotel Brunelleschi. Vieni quando puoi.”

Non risposi. Tornai a stirare, fingendo normalità. Marco si svegliò: “Chi ha chiamato?”

“Nessuno, era la TV.”

A pranzo, Marco mi fissò. “Non mangi?”

“Non ho fame. Devo andare da Anna, il piccolo Luca ha la febbre.”

Ma lui capì. “Aspetta… prima hai detto che nessuno ha chiamato.”

Uscii senza rispondere. “Cosa sto facendo?” pensai. “Marco non merita questo.” Ma qualcosa mi spingeva verso l’hotel.

Davanti all’ingresso esitai. Potevo ancora tornare indietro. Ma Riccardo mi vide e mi raggiunse. Mi prese la mano, e sentii di nuovo quel fuoco.

“Vieni con me. Non posso stare senza di te.”

“Vattene, dimenticami,” dissi, ma il mio corpo voleva restare.

All’alba tornai a casa. Marco era sveglio, mi aspettava. “Lo ami? Vuoi lasciarmi?” chiese.

Non risposi. Come potevo? Non mi vergognavo dell’amore, ma avrei funzionato con Riccardo? E se non fosse andata?

“Non farmi stare senza di te,” supplicò Marco.

Pensai: “Senza di me, si perderebbe.”

“Dormiamo,” dissi.

Il giorno dopo spensi il telefono. Marco mi guardava con occhi tristi, mentre io cercavo di sembrare normale. Ma alle cinque crollai. Corsi alla stazione.

Il treno stava partendo. Cercai Riccardo tra i finestrini, finché lo vidi. Lui mi vide, il treno si fermò con uno stridio metallico. Scese di corsa, ignorando le urla del controllore.

“Sapevo che saresti venuta,” sussurrò, stringendomi.

“Cosa faremo ora?” piangevo.

“Staremo insieme. Ti amo.”

Il treno se ne andò, ma noi restammo lì, abbracciati.

**La lezione?** L’amore arriva quando meno te l’aspetti, e a volte chiede tutto. Non so se Elisa ha fatto la scelta giusta. Ma una cosa è certa: quando il cuore parla, è difficile fingere di non sentirlo.

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