La vita sotto il tallone di un tiranno
Quando la vita ci ha messo alle strette, mio marito ed io siamo stati costretti a trasferirci da suo padre in un paesino vicino a Parma. Pensavamo fosse una soluzione temporanea, ma dopo pochi mesi ho capito che non avrei retto un anno intero sotto lo stesso tetto con quell’uomo. Mi sentivo come una schiava in casa di un padrone crudele, e ora, anche se dovessimo patire la fame, non tornerò mai più da mio suocero. Il suo comportamento verso di me ha distrutto ogni speranza di una convivenza pacifica.
I genitori di mio marito erano divorziati da anni. Lui era cresciuto con il padre, Renzo Bianchi, mentre la madre si era rifatta una famiglia e quasi non si faceva vedere. Forse era per questo che mio suocero disprezzava le donne. Il giorno che ci siamo conosciuti mi era sembrato solo un vecchio burbero, scontroso ma niente di più. Rispettando il fatto che avesse cresciuto da solo mio marito, ho cercato di trovare un punto d’incontro. Invano.
Io e mio marito non avevamo una casa nostra. Affittavamo una stanza a Parma, risparmiavamo per comprarci un appartamento, ma poi sono rimasta incinta e tutti i piani sono saltati. I soldi bastavano a malapena, e il parto era ormai alle porte. Con il cuore in gola, abbiamo chiesto se potevamo stare da Renzo per un po’. Ma già dopo due giorni mi sono pentita di quella decisione, come se avessi intuito l’inferno che mi aspettava.
Non avevo mai visto così tante faccende domestiche in vita mia. Lavorare, pulire, stirare — tutto mi è crollato addosso come se fossi una serva senza volontà, non una donna incinta. All’ottavo mese mi muovevo a fatica, la schiena mi faceva male, ma riposare non era consentito. Continuavo a lavorare per mettere da parte qualcosa prima del congedo di maternità, e a casa mi aspettava una lista infinita di compiti.
«Che ti credi, la principessa?» ringhiava Renzo se osavo sedermi sul divano o sdraiarmi quando non ce la facevo più. «La gravidanza non è una malattia! Nessuno corre con lo straccio al posto tuo!»
E io, stringendo i denti, riprendevo a pulire: pavimenti, finestre, angoli che non vedevano un panno da anni. Mio suocero non conosceva la pietà. Criticava ogni dettaglio, inventandosi nuovi lavori finché non crollavo dalla stanchezza. E lo faceva solo quando mio marito non c’era. Provavo a restare fuori più a lungo per evitare la sua ira, ma non serviva a nulla.
«Torno dal lavoro e tu dove sei andata in giro?» urlava se la cena non era pronta al suo rientro. «Il pavimento è sporco, si sente scricchiolare sotto i piedi, e lei se la prende comoda!»
Le sue parole mi trafiggevano l’anima. Mi umiliava ogni volta che poteva, e io tacevo, per non dare altri problemi a mio marito. Luca già lavorava il doppio per mantenerci. Cercavo di gestire il padre da sola, sperando che si abituasse a me. Ma le sue lagnanze aumentavano come una valanga. La minestra troppo salata, il piatto mal lavato, il letto non rifatto come voleva lui. A volte le sue pretese erano così assurde che trattenevo a stento una risata amara. Dovevo lavare i pavimenti due volte al giorno, stirare non solo i nostri vestiti ma anche le sue camicie, come se fossi lì per servirlo.
«Perché dovrei prendere in mano il ferro se c’è una donna in casa?» urlava. «Se mio figlio si è scelto un’incapace, allora si lasci! Sta sempre sdraiata, la pigrona!»
Vivendo con Renzo, ho capito perché sua moglie era scappata via appena nato Luca. Sopportarlo era oltre le forze umane. Ho iniziato ad ammirare quella donna che era riuscita a resistere qualche anno. Una vera eroina. Ma un giorno ho raggiunto il limite.
Ero sul tavolo a strofinare una pentola quando mi ha rimbrottato perché «non facevo mai niente come si deve». La sua voce piena di disprezzo è stata l’ultima goccia. Ho sbattuto la pentola nel lavandino, mi sono asciugata le mani e, senza dire una parola, sono andata a fare le valigie. Meglio vivere di pane e vino che lasciare che quel tiranno mi spezzasse i nervi. Pensavo a me, ma anche al bambino che non aveva bisogno di litigi e umiliazioni.
«Vattene pure dove ti pare!» mi ha urlato dietro, tempestandomi di insulti.
Proprio allora è tornato Luca. Vedendomi in quello stato, ha fatto fatica a non aggredire suo padre. L’ho portato via, e il giorno dopo abbiamo affittato una stanzetta minuscola. Da allora, Luca non parla più con suo padre. Renzo gli ha mandato messaggi velenosi, accusandolo di aver «scambiato il sangue del padre per una qualunque». Dopo quello, Luca ha chiuso per sempre i ponti.
Ancora oggi non capisco come un uomo del genere abbia potuto crescere in figlio così gentile e premuroso. Forse Renzo si è nForse Renzo si è indurito per la solitudine o la gelosia, ma non ho né la voglia né l’energia per scoprirlo, e spero solo di non rivederlo mai più.