Vivere Sotto la Morsa del Tiranno

Ecco come va la storia, adattata alla nostra cultura italiana…

Quando la vita ci ha messi alle strette io e mio marito, non abbiamo avuto altra scelta che trasferirci da suo padre in un paesino vicino a Bergamo. Pensavamo fosse una soluzione temporanea, ma già dopo qualche mese ho capito che non ce l’avrei fatta a vivere un anno intero sotto lo stesso tetto con quell’uomo. Mi sentivo come una schiava nella casa di un padrone crudele, e ora, anche se dovessimo rimanere senza un euro, non tornerò mai più da mio suocero. Il suo modo di trattarmi ha spezzato ogni speranza di convivenza pacifica.

I genitori di mio marito sono divorziati da tantissimo tempo. Lui è stato cresciuto dal padre, Roberto De Santis, mentre sua madre si è rifatta una famiglia e quasi non si è più fatta vedere nelle loro vite. Forse è per questo che il suocero aveva quel disprezzo per le donne. Il primo giorno che ci siamo conosciuti mi era sembrato solo un vecchio burbero, scontroso ma niente di più. Rispettando il fatto che avesse cresciuto da solo mio marito, cercavo di trovare un punto d’incontro. Invano.

Non avevamo una casa nostra. Affittavamo una stanza a Milano, risparmiavamo per comprarci un appartamento, ma quando sono rimasta incinta tutti i piani sono saltati. I soldi bastavano a malapena, e il parto era ormai alle porte. A malincuore, abbiamo chiesto di stare per un po’ da Roberto. Ma già dopo un paio di giorni ho rimpianto quella decisione, come se avessi sentito in che inferno si sarebbe trasformata la mia vita.

Non avevo mai visto così tante faccende domestiche in vita mia. Pulizie, cucina, stirare – tutto è ricaduto su di me come se fossi una serva senza volontà invece che una donna incinta. All’ottavo mese mi muovevo a fatica, la pancia pesante, la schiena che mi doleva, ma non mi era permesso riposare. Continuavo ad andare al lavoro per mettere da parte qualcosa prima del congedo di maternità, e a casa mi aspettavano compiti senza fine.

“Che fai la principessa?” ringhiava Roberto se osavo sedermi sul divano o sdraiarmi quando non ce la facevo più. “La gravidanza mica è una malattia! Nessuno correrà con lo straccio al posto tuo!”

E io, stringendo i denti, tornava a prendere la scopa, a spolverare, lavare i vetri, pulire angoli dove non passava un panno da anni. Mio suocero non conosceva pietà. Trova da ridire su ogni dettaglio, inventandosi nuovi lavori finché non crollavo dalla stanchezza. E lo faceva solo quando mio marito non c’era. Provavo a restare fuori più tempo possibile per evitare la sua ira, ma non serviva a nulla.

“Torno dal lavoro e tu dove te ne vai in giro?” urlava se la cena non era pronta al suo ritorno. “I pavimenti sono sporchi, si sente scricchiolare sotto i piedi, e lei se la prende comoda!”

Le sue parole mi tagliavano l’anima come coltelli. Mi umiliava ogni volta che poteva, e io tacevo, senza voler dare altri pensieri a mio marito. Andrea già si spaccava la schiena facendo due lavori per mantenerci. Cercavo di gestire la situazione da sola, sperando che si abituasse a me. Ma le sue pretese crescevano come una palla di neve. La minestra era senza sale, il piatto mal lavato, non avevo rifatto bene il letto. A volte le sue lamentele erano così assurde che trattenevo a fatica una risata amara. Dovevo lavare i pavimenti due volte al giorno, stirare non solo i nostri vestiti ma anche le sue camicie, come se fosse mio dovere servirlo.

“Perché dovrei prendere in mano il ferro da stiro se in casa c’è una donna?” strillava. “Se mio figlio si è scelto una scroccona così, che divorzi! Se ne sta tutto il giorno a poltrire!”

Vivendo con Roberto ho capito perché sua moglie era scappata via appena dopo aver partorito. Sopportare quell’uomo era oltre ogni umana capacità. Ho cominciato ad ammirare quella donna che l’aveva tollerato per qualche anno. Era un’eroina. Ma un giorno ho raggiunto il mio limite.

Ero in cucina a strofinare una pentola quando lui è entrato ricominciando a farmi la solita ramanzina su come “non facevo mai nulla bene”. La sua voce piena di disprezzo è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Ho sbattuto la pentola nel lavandino, mi sono asciugata le mani e, senza dire una parola, sono andata a fare le valigie. Meglio vivere con il pane e la mortadella che permettere a quel tiranno di distruggermi i nervi e la salute. Non pensavo solo a me, ma anche al bambino che non aveva bisogno di scandali e umiliazioni.

“Vattene pure al diavolo!” mi gridava dietro, accompagnandomi con i peggiori insulti.

Proprio in quel momento è tornato Andrea. Vedendomi in quello stato, ha fatto fatica a trattenersi dall’aggredire suo padre. Sono riuscita a portarlo via, e il giorno dopo avevamo trovato una stanzetta da affittare. Da allora Andrea non parla più con suo padre. Roberto gli ha mandato qualche messaggio velenoso, accusandolo di aver “scambiato il sangue del proprio padre per una donna qualunque”. Dopo quell’episodio, mio marito ha tagliato ogni rapporto.

Ancora oggi non capisco come da un uomo del genere possa essere venuto fuori un figlio così buono e premuroso. Forse il suocero si era inasprito per la solitudine o la gelosia, ma non ho né la forza né la voglia di approfondire. Non ci sentiamo più, e spero che continui così per sempre.

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