«Vivo per mantenere mia madre» — queste parole mi hanno gelato.

«Mia madre vive a mie spese» — a queste parole mi gelò il sangue.

Ancora oggi non riesco a dimenticare quel maledetto giorno. Il messaggio di mio figlio mi trafisse il cuore come un coltello. La mia vita, nella mia casa di sempre a Bologna, si capovolse all’improvviso, e il dolore di quelle parole ancora mi brucia dentro.

Tanti anni fa, mio figlio Matteo e sua moglie Giulia si trasferirono da me subito dopo il matrimonio. Abbiamo festeggiato insieme la nascita dei loro bambini, abbiamo vegliato insieme durante le loro malattie, li abbiamo visti fare i primi passi. Giulia era in maternità con il primo, poi con il secondo, poi con il terzo. Quando non poteva, prendevo giorni di malattia dal lavoro per badare ai nipotini. La casa si riempiva di voci: pentole sul fuoco, risate, pianti, il caos delle pulizie. Non c’era mai un attimo di pace, ma io mi ero abituata a quel trambusto.

Aspettavo la pensione come un’ancora di salvezza. Contavo i giorni sul calendario, sognando un po’ di tranquillità. Ma quella pace durò solo sei mesi. Ogni mattina accompagnavo Matteo e Giulia al lavoro, preparavo la colazione ai bambini, li vestivo, li portavo a scuola e all’asilo. Con la più piccola andavamo al parco, poi tornavamo a casa, cucinavo, lavavo i piatti, stiravo. La sera li accompagnavo alle lezioni di musica.

Le mie giornate erano programmate al minuto. Ma trovavo sempre un ritaglio di tempo per le mie passioni: leggere e ricamare. Era il mio rifugio, un angolo di silenzio in mezzo al caos.

Poi, quel messaggio. Lo lessi e mi sentii morire.

Prima pensai a uno scherzo crudele. Poi Matteo ammise che non era destinato a me, che l’aveva inviato per sbaglio. Ma ormai era troppo tardi. Quelle parole mi avevano bruciato l’anima: «Mia madre vive a mie spese, e noi dobbiamo pure pagarle le medicine». Gli dissi che l’avevo perdonato, ma non potevo più vivere sotto lo stesso tetto.

Come osava scrivere una cosa del genere? Davo ogni centesimo della mia pensione per la casa. Le medicine me le passava quasi tutte il servizio sanitario. Ma quelle parole mi mostrarro la verità: quanto valevo davvero per lui. Non gridai, non feci scenate. Semplicemente, trovai un piccolo appartamento e me ne andai. Dissi che mi sarebbe piaciuto vivere da sola.

L’affitto mangiava quasi tutta la pensione. Rimasi quasi senza soldi, ma chiedere aiuto a mio figlio? Mai. Prima di andare in pensione, avevo comprato un portatile, nonostante Giulia mi dicesse che «non ce l’avrei mai fatta». Invece ce l’ho fatta. La figlia di un’amica mi insegnò come usarlo.

Iniziai a fotografare i miei ricami e a pubblicarli online. Chiesi alle vecchie colleghe di raccomandarmi. Dopo una settimana, il mio hobby iniziò a portarmi i primi soldi. Non erano cifre grandi, ma mi diedero la forza di capire che non sarei morta di fame, che non avrei dovuto umiliarmi davanti a mio figlio.

Un mese dopo, una vicina mi chiese se potevo insegnare a sua nipote a ricamare e cucire. La bambina fu la mia prima allieva. Poi arrivarono altre due ragazzine. I genitori pagavano volentieri, e la mia vita riprese lentamente un senso.

Ma la ferita nel cuore non si rimargina. Quasi non parlo più con la famiglia di Matteo. Ci vediamo solo alle feste di famiglia.

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