– Ma davvero? – La voce di Luca tremò, non per la sorpresa, ma per lo sforzo di non dire qualcosa di cui poi si sarebbe pentito. Era seduto sul bordo del divano, gli occhi fissi sul vassoio di sushi che lui e Beatrice non avevano nemmeno iniziato a mangiare. – Hai davvero comprato una Porsche?
– Non una Porsche, una Taycan. Elettrica. Almeno imparati il nome, se vuoi farmene una colpa – rispose Beatrice senza alzare gli occhi dal telefono. Nella sua bacheca di Instagram, una collega aveva postato una foto da una conferenza a Milano. Tutti in giacca, ma con lo spumante in mano. Come sempre.
Nell’appartamento si sentiva odore di wasabi, irritazione e bagno appena pulito – Beatrice aveva passato velocemente lo straccio sul pavimento prima che Luca arrivasse, anche se sapeva già che non sarebbe servito a niente.
– Non capisco, a cosa ti serve un’auto del genere? – Luca si alzò e iniziò a camminare avanti e indietro in cucina. – Non sei un pilota. Non sei un milionario. Pensi che la gente ti rispetterà di più se giri con quella… astronave?
– Sì. Esatto. E potrò pure parcheggiare non in mezzo al nulla, ma in posti normali, dove ci sono le colonnine di ricarica. E, pensa un po’, non dovrò nemmeno stare imbottigliata nel traffico perché la Taycan ha il cruise control adattivo. Non è una questione di apparenza, Luca. È comfort, sicurezza e – ta-dah! – i miei soldi.
– Hai sentito cos’ha detto papà? – disse Luca con tono insistente, come se stesse ripetendo una frase imparata a memoria.
– Purtroppo sì, l’udito ce l’ho ancora perfetto. – Beatrice finalmente posò il telefono. – Ha detto che non sta bene a una donna avere un’auto così, perché suscita «eccitazione malsana nella società maschile». Testuali parole, tra l’altro.
– È solo preoccupato. È vecchia scuola.
– È scuola archeologica, Luca. E tu non sei da meno, se ora non mi dici qualcosa che somigli anche solo vagamente a sostegno.
Luca aprì la bocca come per dire qualcosa, ma la richiuse subito. Come se dentro di lui ci fosse una vecchia radio a transistor – suono sì, immagini no.
– Perché non potevi discuterne con me? Siamo una famiglia. Avrei potuto…
– Cosa? Consigliarmi una Kia Ceed, come quella di tua mamma? O convincermi a comprarti la station wagon di nonno?
Lui sogghignò, ma senza allegria:
– Sì, grazie per la fiducia.
Beatrice sospirò e lo guardò come si guarda uno sgabello con una gamba rotta: ancora regge, ma sedercisi sopra è un azzardo.
– Luca, hai mai avuto la sensazione di poter fare quello che vuoi? Senza doverti preoccupare delle opinioni, delle aspettative, dei capricci degli altri?
– Io non guadagno quanto te, se è questo il punto.
– Non è una questione di soldi, è libertà interiore.
Lui alzò le spalle, come se quelle parole gli dessero fastidio.
– Lo sapevi che i miei genitori non sono così. Sapevi in che situazione ti mettevi.
– Speravo che almeno iniziassero a rispettarmi. O che tu lo facessi.
Il silenzio nella stanza si fece più denso del couscous del kebabbaro sotto casa. Luca si sedette di nuovo, gli occhi bassi.
– È solo che pensano che tu debba essere più… femminile.
– Sì, e preferibilmente senza patente, senza opinioni e con un eterno grazie per la fede? – Beatrice rise amaramente. – Mi spiace, non sono un contorno. Sono una persona autonoma, sai?
Lui distolse lo sguardo. E in quel momento, come in un teatro dell’assurdo, bussarono alla porta. Troppo sicuri per essere un fattorino, troppo discreti per essere i vicini.
– È mamma – sospirò Luca, alzandosi. – Voleva passare a vedere come stiamo.
– È «casualmente» nei paraggi? O ha messo un tracker alla mia auto? – Beatrice alzò un sopracciglio e si sistemò la camicetta.
– Solo… sii gentile, okay?
– Sono già più morbida di un bagnoschiuma. E tu dovresti imparare a non essere una spugna.
La porta si aprì. Anna Maria entrò con una busta del NaturaSì, l’aria di chi non fa una visita, ma un’ispezione.
– Eccoci, amorini. Vi ho portato un’insalata bio, niente pesticidi, un po’ di salute non vi fa male. – Gettò un’occhiata a Beatrice, scrutandola dai piedi alla testa. – E tu perché così elegante? Hai un appuntamento?
– Io sono sempre così. Non posso permettermi di vestirmi come una pensionata in maternità – rispose Beatrice con calma.
– E questa a chi la dici? – Anna Maria aggrottò le sopracciglia.
– A nessuno in particolare. Ma se ti ci sei ritrovata, magari significa qualcosa.
– Luca, tu glielo permetti di parlarmi così? – La suocera si girò verso il figlio, ignorando Beatrice come una stampante d’ufficio nel weekend.
– Non è il mio controllore. E non sono il suo traduttore dal italiano al familiare. – Beatrice passò oltre, prendendo il sushi dalla cucina. – Vuole un tè? O passiamo direttamente alla discussione sulla mia indecente automobile?
– Vedi che capisci da sola, brava. – Anna Maria sorrise. – A noi serve di più, io e tuo suocero. Andiamo in campagna, visitiamo le villette. A te cosa serve? Per fare la figa?
– Esatto. E anche per vendicarmi. Di voi. – Lo disse piano, calma. Come un chirurgo che annuncia un’appendicite ormai degenerata.
Ci fu una pausa. Persino Luca sembrò capire che era successo qualcosa di serio. Beatrice rimise giù il sushi.
– Scusate, non ho più la forza di fingere che tutto questo sia normale.
– Cosa sarebbe «tutto questo»? – chiese la suocera, confusa.
– Tutto. Il fatto che entriate qui come se fosse un turno di servizio. Che Luca stia zitto come un monumento alla sua infanzia. Che mi dicano come devo vivere, vestirmi, spendere i miei soldi. Basta.
Si tolse i tacchi, come se si togliesse un’armatura, e si diresse verso la camera da letto. Luca rimase a bocca aperta, mentre Anna Maria lo guardò con un’espressione in cui già si leggeva rabbia.
– Mi umilia davanti a te, e tu stai lì a guardare? Non si può vivere così!
– Infatti non vivremo più così – si sentì la voce di Beatrice dalla stanza. Calma, ma con un filo d’acciaio che poteva tagliare.
Beatrice si svegliò per un rumore che poteva essere un terremoto o almeno l’ascensore che crollava. Era l’armadio – sbatté così forte che il vecchio palazzo tremò fino alle tubature. Luca cercava dei documenti. Non i suoi, ovviamente. I suoi. Quelli della macchina.
– Ma sei serio? – La sua voce era roca, come quella di un presentatore che ha fumato troppo. La litigata della sera prima le aveva segnato le corde vocali.
– Dov’è il libretto? – Luca neanche si girò. Indossava quei pantaloni da casa con le ginocchia sformate, quelli che metteva quando sistemava il router o borbottava «va bene, mi faccio il couscous da solo».
– Dove sono le tue palle. Da qualche parte, sepolte sotto la paura dei tuoi genitori. – Beatrice si alzò, si infilò la vestaglia e gli passò accanto, ignorando deliberatamente quali carte stesse rovistE quell’ultimo sguardo tra loro, carico di tutto ciò che poteva ancora essere ma non sarebbe mai stato, rimase sospeso nell’aria come la polvere danzante alla luce del tramonto.






