— Vuoi che regali una macchina a tuo padre?! Sei impazzito? O nella tua famiglia curano l’autonomia femminile in questo modo?!

“Davvero?” La voce di Edoardo tremò, ma non per la sorpresa, bensì per lo sforzo di trattenersi dal dire qualcosa di cui poi si sarebbe pentito. Era seduto sul bordo del divano, lo sguardo fisso sulla confezione di sushi che lui e Beatrice non avevano nemmeno iniziato a mangiare. “Hai davvero comprato una Porsche?”

“Non una Porsche, una Taycan. Elettrica. Almeno impara il nome se vuoi farmene una colpa,” rispose Beatrice senza nemmeno alzare gli occhi dal telefono. Nella sua bacheca di Instagram, una collega aveva postato una foto da una conferenza a Zurigo. Tutti in giacca, ma con un bicchiere di prosecco in mano. Come al solito.

L’appartamento odorava di wasabi, irritazione e bagno appena pulito—Beatrice aveva strofinato le piastelle meccanicamente prima dell’arrivo di Edoardo. Anche se sapeva già che non sarebbe servito a nulla.

“Non capisco proprio, che te ne fai di un’auto del genere?” Edoardo balzò in piedi e iniziò a camminare avanti e indietro per la cucina. “Non sei un pilota. Non sei un milionario. Pensi davvero che la gente ti rispetterà di più se ti presenti con quella… astronave?”

“Sì. Esatto. E potrò anche parcheggiare non in mezzo al nulla, ma in posti normali, dove ci sono le colonnine di ricarica. E, pensa un po’, non dovrò stare imbottigliata nel traffico perché la Taycan ha il cruise control adattivo. Non è una questione di ostentazione, Edoardo. È comfort, sicurezza e—ta-dah!—i miei soldi.”

“Hai sentito cosa ha detto papà?” disse Edoardo con tono pressante, come se stesse ripetendo una formula imparata a memoria.

“Sì, purtroppo il mio udito funziona ancora benissimo.” Beatrice finalmente posò il telefono. “Ha detto che per una donna è sconveniente avere un’auto del genere, perché suscita ‘eccitazione malsana nella società maschile’. Testuali parole, tra l’altro.”

“È solo preoccupato. È vecchia scuola.”

“È fossilizzato, Edoardo. E anche tu ci stai andando a finire, se non riesci a dire qualcosa che anche solo vagamente assomigli a un sostegno.”

Edoardo aprì la bocca come per dire qualcosa, poi la richiuse. Come se dentro di lui ci fosse una vecchia televisione Sovietica—suono sì, ma niente immagine.

“Ma perché non ne hai parlato con me? Siamo una famiglia. Avrei potuto—”

“Cosa? Consigliarmi una Kia Ceed, come quella di tua mamma? O magari convincermi a prendere la station wagon di tuo nonno?”

Lui sorrise, ma senza gioia:
“Be’, grazie per la fiducia.”

Beatrice sospirò e lo guardò come si guarda uno sgabello con una gamba rotta: in teoria regge ancora, ma sedercisi sopra fa paura.

“Edoardo, hai mai avuto la sensazione di poter fare quello che vuoi? Senza dover rendere conto a opinioni, aspettative, capricci?”

“Io non ho il tuo stesso livello di reddito, se è questo che intendi.”

“Non parlo di soldi, parlo di libertà interiore.”

Lui scrollò le spalle, come se quelle parole gli provocassero allergia.

“Lo sapevi che i miei genitori non sono così. Sapevi in cosa ti stavi cacciando.”

“Speravo che almeno cominciassero a rispettarmi. O che tu lo facessi.”

Il silenzio nella stanza divenne più denso persino del risotto di ieri comprato al chiosco vicino alla metro. Edoardo si sedette di nuovo, lo sguardo verso il basso.

“Loro credono solo che tu debba essere… beh, più femminile.”

“Ah, sì. E preferibilmente senza patente, senza opinioni e con eterna gratitudine per la fede nuziale?” Beatrice sorrise amaramente. “Mi spiace, non sono il contorno al minestrone. Sono una persona autonoma, in caso non te ne fossi accorto.”

Lui distolse lo sguardo. E in quel momento, come in un teatro dell’assurdo, bussarono alla porta. Troppo sicuri per essere un fattorino. Troppo piano per essere un vicino.

“È mamma,” sospirò Edoardo, alzandosi. “Voleva passare a vedere come viviamo.”

“È ‘casualmente’ passata di qui? O ora ha un localizzatore sulla mia macchina?” Beatrice alzò un sopracciglio e si sistemò la camicetta.

“Per favore… sii gentile, okay?”

“Io sono già crema idratante. A te tocca imparare a non essere una spugna.”

La porta si aprì. Anna Maria entrò con una busta dell’Esselunga, con l’aria di chi non sta visitando, ma ispezionando.

“Ehilà, amorini. Vi ho portato un’insalata sana, senza nitrati, vi farà bene.” Gettò un’occhiata a Beatrice, scivolando con lo sguardo sui suoi tacchi. “Ma tu così elegante? Dove vai, al gran ballo?”

“Sto sempre così. Non posso permettermi di sembrare una pensionata in maternità,” rispose Beatrice con calma.

“E questa a chi la dici?” Anna Maria aggrottò la fronte.

“Al personaggio immaginario, non la prenda sul personale. Ma se ci si riconosce, forse è un segnale.”

“Edoardo, ma tu glielo permetti di parlare così?” si rivolse la suocera al figlio, ignorando Beatrice come una stampante d’ufficio nel weekend.

“Non è il mio controllore. Né il mio interprete dall’italiano al familiare,” disse Beatrice passandole accanto e prendendo il sushi dalla cucina. “Vuole del tè? O passiamo direttamente a discutere della mia macchina indecente?”

“Vedi che capisci tutto da sola, brava.” Sorrise Anna Maria. “A noi e a Giancarlo serve di più un’auto del genere. Andiamo in campagna, alle seconde case. A te cosa serve? Per fare la figa?”

“Sì. E anche per vendicarmi. Di voi.” Lo disse piano, con calma. Come un chirurgo che annuncia un’appendicite degenerata in peritonite.

Un silenzio pesante. Persino Edoardo sembrò capire che era successo qualcosa di serio. Beatrice rimise giù il sushi.

“Mi spiace, non ho più la forza di fingere che tutto questo sia normale.”

“Che ‘tutto questo’?” chiese la suocera confusa.

“Tutto. Che voi entriate in casa come un ispettorato. Che Edoardo stia zitto come una statua della sua infanzia. Che mi si dica come devo vivere, vestirmi, spendere i miei soldi. Ho finito.”

Si tolse i tacchi, come se stesse togliendosi un’armatura, e si diresse verso la camera da letto. Edoardo rimase a bocca aperta, mentre Anna Maria lo fissava con un’espressione in cui già traspariva la rabbia.

“Mi umilia davanti a te e tu stai lì a guardare i calzini! Non si può vivere così!”

“Infatti non lo faremo più,” si sentì la voce di Beatrice dalla porta. Calma, ma con un tono così tagliente da affilare le forbici.

Beatrice si svegliò per un rumore che poteva essere un terremoto o almeno l’ascensore rotto. Era l’armadio—sbattuto così forte che il vecchio palazzo tremò fino alle tubature. Edoardo cercava dei documenti. Non i suoi, ovviamente. I suoi. Della macchina.

“Sei serio?” La sua voce era roca come quella di un presentatore fumatore. La lite di ieri si era scolpita sulle corde vocali.

“Dov’è il libretto?” Edoardo non si voltò nemmeno. Indossava quei pantaloni da casa con le ginocchia sformate, quelli che usava per aggiustare il router o borbottare “va bene, mi faccio il riso da solo.”

“Dov’è anche il resto. Da qualche parte, sepolto sotto la paura dei tuoi genitori.” Beatrice si alzò, indossò la vestaglia eE poi, guardando la sua Taycan scintillare sotto il sole, Beatrice sorrise finalmente libera, sapendo che non avrebbe più sprecato un solo istante della sua vita a chiedere permesso.

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