Ricordo quando, a quarantasette anni, ero una donna qualunque, una topolina grigia fra le mille ombre di Milano. Non avevo bellezza né forme scolpite; ero sola, mai sposata, perché credevo che gli uomini fossero tutti uguali, bestie che solo vogliono riempirsi la pancia e sdraiarsi sul divano. Nessuno mi aveva mai proposto matrimonio o neanche un incontro. I miei genitori, ormai anziani, vivono a Bari, città di mare dove il vento porta i ricordi di unestate che non ritorna.
Sono figlia unica; non ho sorelle né fratelli. Ho dei cugini, ma non li vedo più, non ho più voglia di parlare con loro. Da quindici anni lavoro in unazienda milanese; la vita è una catena di giorni che si susseguono tra lavoro e casa. Abito in un condominio di periferia, un palazzo di quattro piani che scricchiola quando il vento passa tra le finestre.
Sono amara, cinica, non amo nessuno, né i bambini. Ogni Capodanno mi spostavo a Bari per vedere i genitori; una volta allanno tornavo. Questanno, come gli altri, ero arrivata, ho deciso di pulire il frigorifero, di buttare via le vecchie confezioni di gnocchi e polpette rimaste da tempo. Ho messo tutto in una scatola e sono scesa verso il bidone della spazzatura. Lì, nellascensore, ho incontrato un ragazzino di circa sette anni, Luca, che vedevo solo di rado con la madre e il neonato. Si è fermato a fissare la scatola, poi, timido, mi ha chiesto: Posso prenderla?. Ho risposto che era vecchia, ma poi ho pensato che non fosse marcia, così gliela ho data. Mentre mi allontanavo, lho visto stringere i sacchetti al petto, quasi a proteggerli.
Dove è tua madre?, gli ho chiesto. Ha risposto che è malata, così come la sorellina, e che non riesce nemmeno a stare in piedi. Sono tornata al mio appartamento, ho acceso il fuoco e mi sono seduta a riflettere. Il bambino non usciva dalla mia mente; non sono mai stata una buona anima, ma qualcosa mi ha spinto a prendere del cibo di casa salame, pecorino, latte, biscotti, patate, cipolle e anche un pezzo di carne dal congelatore e a tornare al piano dove viveva Luca.
Non sapevo nemmeno a che piano abitasse; sapevo solo che doveva essere più in alto del mio. Salivo piano per piano, finché, al terzo piano, la porta si è aperta per lui. Insieme siamo entrati, e lappartamento era umile ma pulito. Una donna, Fiorenza, giaceva a terra, avvolta in una coperta, accanto al neonato. Sul tavolo cera un secchio dacqua e degli stracci; il caldo la faceva sudare copiosa. Anche la bambina dormiva, ma un brontolio le usciva dal petto. Ho chiesto al ragazzo se avessero medicine; ha mostrato delle compresse scadute da anni, ormai inutili. Ho toccato la fronte di Fiorenza, era rovente. Ha aperto gli occhi, mi ha guardato con uno sguardo confuso, poi ha chiesto: Dovè Anton? il padre del bambino. Le ho detto di essere la vicina. Ho chiesto i sintomi, ho chiamato lambulanza e, mentre aspettavamo, le ho offerto del tè con un pezzo di salame. Mangiava senza interruzioni, evidentemente affamata. Non sapevo se allattasse al seno, ma la sua fame era evidente.
I medici sono arrivati, hanno curato la piccola, prescrivendo molte medicine e anche iniezioni. Sono corsa in farmacia, ho comprato tutto, poi sono entrata in un negozio di alimenti per bambini, ho preso latte e varie pappe. Ho comprato anche un giocattolo: una scimmia di plastica di un giallo acido, perché non avevo mai regalato nulla a un bambino prima dora.
Fiorenza aveva ventisei anni, era nata a Pavia, ma viveva nella periferia di Torino, dove la madre e la nonna, entrambe milanesi, si erano trasferite quando il padre, tecnico in una fabbrica, era morto elettrizzato sul lavoro. Madre e figlia si erano ritrovate senza lavoro né soldi; gli amici le avevano aiutate, ma la povertà li aveva travolti in tre anni. Un giorno, la nonna di Fiorenza, abitante di Milano, laveva presa con sé. A quindici anni, la nonna le rivelò che la madre era morta di tubercolosi. La nonna era avara, fumava molto e parlava poco.
A sedici anni Fiorenza iniziò a lavorare in un piccolo negozio di generi alimentari, prima come addetta al confezionamento, poi come cassiera. A diciotto anni la nonna morì, lasciandola sola. Inizialmente aveva un fidanzato che prometteva di sposarsi, ma quando Fiorenza rimase incinta, lui scomparve. Lavorava fino allultimo centesimo, risparmiando perché non aveva nessuno a cui chiedere aiuto. Quando partorì, a un mese di età, lasciava il bambino da sola in casa e puliva le scale. Il proprietario del negozio, dove era tornata a lavorare, la costrinse a subire violenze ogni sera, minacciandola di licenziarla. Quando scoprì la gravidanza, le diede diecimila euro e la consigliò di sparire.
Questa è la storia che mi raccontò quella sera. Mi ringraziò per tutto, promettendo di ripagare con pulizie e cucina. Io le feci un cenno di gratitudine e me ne andai. Quella notte non dormii, mi chiesi perché vivessi e cosa avessi fatto della mia vita. Raccoglievo soldi, ma non avevo nessuno a cui spendere; mi sentivo vuota, mentre il destino altrui si spezzava per la fame e la malattia.
Al mattino arrivò Anton, con un piatto di frittelle e corse via. Ero sulla soglia con quel piatto ancora caldo; il calore mi avvolse come un abbraccio, e mi sentii sciogliere, quasi a rinascere. In quel momento mi invadve la voglia di piangere, ridere e mangiare insieme.
Non lontano da casa cè un piccolo centro commerciale; la proprietaria di un negozio di articoli per bambini, non capendo che taglia di vestiti mi servisse, accettò di accompagnarmi a fare la spesa. Non so se lo fece per il profitto o per la sua impressione della mia gentilezza. Dopo unora, portò quattro enormi sacchi di vestiti per una bambina e un bambino, oltre a una coperta, cuscini, biancheria e generi alimentari. Comprai anche vitamine; volevo comprare tutto, sentendomi finalmente utile.
Sono passati dieci giorni; ora mi chiamano Zia Rita. Fiorenza è unartigiana davvero brava. Il mio appartamento è più accogliente, ho iniziato a telefonare ai miei genitori. Inviò messaggi di speranza ai bambini malati. Non capisco più come ho vissuto prima. Ogni sera, dopo il lavoro, corro a casa, sapendo che qualcuno mi aspetta.
E in primavera, tutti noi partiremo per Bari, insieme. I biglietti del treno sono già stati acquistati. Questo ricordo mi accompagna ancora, come un eco di una vita che, finalmente, ha trovato un senso.






