Zio, per favore, prenditi cura della mia sorellina — non mangia da tanto tempo,” disse lui, girandosi di scatto e rimanendo stupito!

**Diario di Luca**

“Zio, per favore, prendi mia sorella non mangia da tanto tempo.” Mi voltai di scatto, colto alla sprovvista da quella voce flebile che si era fatta strada tra il rumore della strada. Stavo correndono, volavo, come se un nemico invisibile mi inseguisse. Il tempo stringeva: milioni di euro dipendevano da una decisione che avremmo preso quel giorno stesso in riunione. Dopo la morte di Elenamia moglie, la mia luce, il mio sostegnoil lavoro era diventato lunico senso della mia vita.

Ma quella voce

Mi girai.

Davanti a me cera un bambino di sette anni, magro, spettinato, con gli occhi gonfi di pianto. Tra le braccia stringeva un fagottino da cui spuntava il viso di una neonata. La bambina, avvolta in una coperta logora, piagnucolava piano, mentre lui la teneva stretta come se fosse il suo unico scudo in un mondo indifferente.

Esitai. Sapevo di non avere tempo, dovevo andare. Eppure, qualcosa in quello sguardo, in quel semplice “per favore”, aveva toccato una parte profonda della mia anima.

“Dovè tua mamma?” chiesi con dolcezza, accovacciandomi accanto a lui.

“Aveva promesso di tornare ma sono già due giorni che non la vedo. Aspetto qui, nel caso tornasse.” La sua voce tremava, come le sue piccole mani.

Si chiamava Matteo. La neonata era Sofia. Erano rimasti soli. Niente biglietti, niente spiegazionisolo la speranza a cui il bambino di sette anni si aggrappava come un naufrago a una canna.

Offrii di comprare del cibo, di chiamare la polizia, di avvisare i servizi sociali. Ma alla parola “polizia”, Matteo sussultò e sussurrò con dolore:

“Ti prego, non portarci via. Ci separeranno”

E in quel momento capii: non potevo semplicemente andarmene.

Nella caffetteria più vicina, Matteo mangiò voracemente, mentre io nutrivo Sofia con un biberon comprato in farmacia. Dentro di me si risvegliava qualcosa che credevo dimenticatoqualcosa sepolto sotto una corazza di ghiaccio.

Chiamai lassistente:

“Annulla tutti gli appuntamenti. Oggi e domani.”

Poco dopo arrivarono i carabinieriRossi e Bianchi. Domande di routine, procedure standard. Matteo mi stringeva la mano con forza:

“Non ci porterai in un orfanotrofio, vero?”

Non mi aspettavo di dire quelle parole:

“No. Te lo prometto.”

In questura iniziarono le formalità. Entrò in gioco Lara, unamica di vecchia data e assistente sociale esperta. Grazie a lei, tutto fu sbrigato in frettaaffidamento temporaneo.

“Solo finché non troveremo la mamma,” ripetevo più a me stesso che agli altri.

Portai i bambini a casa mia. In macchina regnava un silenzio tombale. Matteo teneva stretta la sorella senza fare domande, sussurrandole parole dolci, familiari.

Il mio appartamento li accolse con spazi ampi, tappeti morbidi e finestre panoramiche sulla città. Per Matteo, sembrava una fiabanon aveva mai conosciuto tanto calore.

Io, invece, mi sentivo smarrito. Non sapevo nulla di pappe, pannolini e routine. Inciampavo nelle culle, dimenticavo gli orari dei pasti e della nanna.

Ma Matteo era lì. Silenzioso, attento, teso. Mi osservava come si osserva un estraneo che potrebbe sparire da un momento allaltro. Eppure, aiutavacullava Sofia con cura, le cantava ninne nanne, la metteva a dormire con unesperienza che solo chi laveva fatto molte volte poteva avere.

Una sera, Sofia non riusciva ad addormentarsi. Si agitava, singhiozzava. Allora Matteo si avvicinò, la prese in braccio e iniziò a canticchiarle qualcosa. Dopo pochi minuti, la bambina dormiva serena.

“Sei bravissimo a calmarla,” dissi, con un nodo in gola.

“Ho dovuto imparare,” rispose semplicemente. Senza rancore, senza lamenticome un fatto della vita.

In quel momento squillò il telefono. Era Lara.

“Abbiamo trovato la loro madre. È viva, ma in riabilitazionedipendenza da droghe, situazione complicata. Se completerà la terapia e dimostrerà di poterli accudire, li riavrà. Altrimenti, laffidamento sarà dello Stato. Oppure tuo.”

Rimasi in silenzio. Qualcosa si strinse dentro di me.

“Puoi chiedere laffidamento ufficiale. O addirittura ladozione. Se è davvero quello che vuoi.”

Non ero sicuro di essere pronto a diventare un padre. Ma sapevo una cosa: non volevo perderli.

Quella sera, Matteo era seduto in un angolo del salotto e disegnava con cura.

“Che ne sarà di noi adesso?” chiese, senza alzare lo sguardo dal foglio. Ma nella sua voce cera tuttopaura, dolore, speranza e la paura di essere di nuovo abbandonato.

“Non lo so,” risposi con sincerità, sedendomi accanto a lui. “Ma farò di tutto per tenervi al sicuro.”

Matteo tacque un attimo.

“Ci porteranno via di nuovo? Ci toglieranno da te, da questa casa?”

Lo abbracciai. Forte. Senza parole. Volevo dirgli con tutto me stesso: non sei più solo. Mai più.

“Non vi lascerò andare. Promesso.”

In quel momento capii: quei bambini non erano più degli estranei. Erano diventati parte di me.

Il mattino dopo chiamai Lara.

“Voglio diventare il loro tutore legale. A tutti gli effetti.”

Il processo non fu semplice: controlli, colloqui, visite a casa, domande infinite. Ma affrontai tuttoperché ora avevo uno scopo. Due nomi: Matteo e Sofia.

Quando laffidamento divenne permanente, decisi di trasferirmi. Comprai una casa in campagnacon un giardino, spazio, il canto degli uccelli al mattino e il profumo dellerba dopo la pioggia.

Matteo fiorì davanti ai miei occhi. Rideva, costruiva fortezze di cuscini, leggeva ad alta voce, appendevo i suoi disegni con orgoglio sul frigo. Vivevaveramente, senza paura.

Una sera, mentre lo mettevo a letto, gli sistemai la coperta e gli accarezzai i capelli. Matteo mi guardò e sussurrò:

“Buonanotte, papà.”

Sentii un calore profondo, e gli occhi mi bruciarono.

“Buonanotte, Matteo.”

In primavera arrivò ladozione definitiva. La firma del giudice sancì ciò che nel mio cuore era già deciso.

La prima parola di Sofia”Papà!”valse più di qualsiasi successo lavorativo.

Matteo si fece degli amici, si iscrisse a calcio, a volte tornava a casa con un gruppo di ragazzi chiassosi. Io imparai a fare le trecce, a preparare la colazione, ad ascoltare, a ridere e a sentirmi di nuovo vivo.

Non avevo mai pianificato di diventare un padre. Non lavevo cercato. Ma ora non potevo immaginare la mia vita senza di loro.

È stato difficile. È stato inaspettato.

Ma è stata la cosa più bella che mi sia mai capitata.

Rate article
Add a comment

;-) :| :x :twisted: :smile: :shock: :sad: :roll: :razz: :oops: :o :mrgreen: :lol: :idea: :grin: :evil: :cry: :cool: :arrow: :???: :?: :!:

nine + sixteen =

Zio, per favore, prenditi cura della mia sorellina — non mangia da tanto tempo,” disse lui, girandosi di scatto e rimanendo stupito!