«Zio, prendi la mia sorellina non mangia da tanto tempo,» disse lui, girandosi di colpo e rimanendo pietrificato dalla sorpresa.
«Per favore, zio prendila. Ha fame»
Quella voce sottile, carica di disperazione, che si era fatta strada tra il rumore della strada, colse Enrico di sorpresa. Stava correndo no, volava come se un nemico invisibile lo inseguisse. Il tempo stringeva: milioni di euro dipendevano da una decisione che sarebbe stata presa quel giorno stesso in riunione. Dopo la morte di Laura, sua moglie, la sua luce, il suo sostegno, il lavoro era diventato lunico senso della sua vita.
Ma quella voce
Enrico si voltò.
Davanti a lui cera un bambino di sette anni. Magro, spettinato, con gli occhi lucidi. Tra le braccia stringeva un fagottino da cui spuntava il viso di una neonata. La bambina, avvolta in una coperta logora, piagnucolava piano, mentre il bimbo la teneva stretta come se fosse lunica protezione che avesse in quel mondo indifferente.
Enrico esitò. Sapeva che non poteva perdere tempo, doveva andare. Ma qualcosa in quello sguardo, o in quel semplice «per favore», gli toccò il cuore.
«Dovè la mamma?» chiese dolcemente, accovacciandosi accanto a lui.
«Aveva promesso di tornare ma sono già due giorni che non la vedo. Aspetto qui, nel caso torni,» la voce del bambino tremava, così come le sue manine.
Si chiamava Matteo. La piccola era Sofia. Erano rimasti completamente soli. Nessun biglietto, nessuna spiegazione solo la speranza a cui Matteo si aggrappava come un naufrago a un filo derba.
Enrico propose di comprare da mangiare, di chiamare la polizia, di avvisare i servizi sociali. Ma alla parola «polizia», Matteo trasalì e sussurrò con angoscia:
«Per favore, non ci portate via. Prenderanno Sofia»
E in quel momento, Enrico capì: non poteva più andarsene così.
Nel bar più vicino, Matteo mangiò voracemente, mentre Enrico dava con cura alla piccola il latte in polvere comprato in farmacia. Dentro di lui stava rinascendo qualcosa che credeva sepolto da tempo.
Chiamò il suo assistente:
«Cancella tutti gli impegni. Oggi e domani.»
Poco dopo arrivarono i carabinieri Moretti e Bianchi. Domande di routine, procedure standard. Matteo stringeva la mano di Enrico con forza:
«Non ci manderai in un orfanotrofio, vero?»
E Enrico, senza nemmeno pensarci, rispose:
«No. Te lo prometto.»
In commissariato iniziò il trambusto burocratico. A occuparsi del caso fu chiamata Chiara, unamica di vecchia data e assistente sociale esperta. Grazie a lei, tutto fu sbrigato in fretta laffidamento temporaneo.
«Solo finché non troveremo la mamma,» ripeteva Enrico, più a sé stesso che agli altri.
Portò i bambini a casa. In macchina regnava un silenzio tombale. Matteo teneva stretta la sorellina, senza fare domande, sussurrandole solo parole dolci, rassicuranti.
Lappartamento di Enrico li accolse con spazi ampi, tappeti morbidi e finestre panoramiche sulla città. Per Matteo sembrava una fiaba non aveva mai conosciuto tanto calore.
Enrico, invece, si sentiva perso. Non sapeva nulla di pappe, pannolini e routine. Inciampava nei sacchetti di latte, dimenticava gli orari.
Ma Matteo era lì. Silenzioso, attento, teso. Osservava Enrico come se potesse sparire da un momento allaltro, eppure lo aiutava cullando Sofia con cura, cantandole ninne nanne, mettendola a dormire come solo chi laveva fatto mille volte sapeva fare.
Una sera, Sofia non riusciva a prendere sonno. Si agitava nel lettino, piagnucolando. Allora Matteo la prese in braccio e iniziò a cullarla dolcemente. In pochi minuti, la piccola si addormentò.
«Sei bravissimo a calmarla,» disse Enrico, commosso.
«Ho dovuto imparare,» rispose semplicemente Matteo, senza risentimento.
In quel momento squillò il telefono. Era Chiara.
«Abbiamo trovato la loro madre. È viva, ma in riabilitazione tossicodipendenza, situazione complicata. Se completerà la terapia e dimostrerà di poterli accudire, potrà riaverli. Altrimenti laffidamento andrà allo Stato. Oppure a te.»
Enrico tacque. Qualcosa dentro di lui si strinse.
«Potresti diventare il loro tutore legale. O addirittura adottarli. Se lo vuoi davvero.»
Non era sicuro di essere pronto a fare il padre. Ma sapeva una cosa: non poteva perderli.
Quella sera, Matteo sedeva in un angolo del salotto e disegnava con concentrazione.
«Cosa succederà adesso?» chiese, senza alzare gli occhi dal foglio. Ma nella sua voce cera tutto paura, dolore, speranza.
«Non lo so,» rispose onestamente Enrico, sedendosi accanto a lui. «Ma farò di tutto per tenervi al sicuro.»
Matteo rimase in silenzio un attimo.
«Ci porteranno via di nuovo? Ci toglieranno da qui?»
Enrico lo abbracciò. Forte. Senza parole. Voleva fargli capire: non sei più solo. Mai più.
«Non vi lascerò andare. Promesso.»
In quel momento capì: quei bambini non erano più estranei. Erano diventati parte di lui.
Il mattino dopo, Enrico chiamò Chiara:
«Voglio diventare il loro tutore ufficiale. A tutti gli effetti.»
Il processo non fu semplice: controlli, colloqui, visite a domicilio, domande infinite. Ma Enrico superò tutto perché ora aveva uno scopo. Due nomi: Matteo e Sofia.
Quando laffidamento temporaneo divenne definitivo, Enrico decise di trasferirsi. Comprò una casa in campagna con un giardino, spazio, il canto degli uccelli al mattino e il profumo dellerba dopo la pioggia.
Matteo sbocciò. Rideva, costruiva fortezze di cuscini, leggeva ad alta voce, attaccava i suoi disegni sul frigo con orgoglio. Finalmente viveva senza paura.
Una sera, mentre lo metteva a letto, Enrico gli sistemò la coperta e gli accarezzò i capelli. Matteo lo guardò e sussurrò:
«Buonanotte, papà.»
Enrico sentì un calore profondo, e gli occhi gli bruciarono.
«Buonanotte, Matteo.»
In primavera ci fu ladozione ufficiale. La firma del giudice sancì tutto legalmente, ma nel cuore di Enrico era già deciso da tempo.
La prima parola di Sofia «Papà!» valse più di ogni successo lavorativo.
Matteo si fece degli amici, si iscrisse a calcio, a volte tornava a casa con un gruppo di ragazzi chiassosi. E Enrico imparava a fare le trecce, preparare la colazione, ascoltare, ridere e sentirsi di nuovo vivo.
Non aveva mai pianificato di diventare padre. Non laveva cercato. Ma ora non poteva immaginare la sua vita senza di loro.
Era difficile. Era inaspettato.
Ma era la cosa più bella che gli fosse mai capitata.





