Quando l’aria si fa pesante

L’aria pesava come piombo

Fin dal mattino, nel appartamento regnava un silenzio diverso dal solito—teso, denso, come prima di un temporale. Non era una quiete rassicurante, ma un’assenza di suoni inquietante, che faceva tremare le dita. Persino il bollitore sembrava esitare prima di fischiare, come se temesse di infrangere quel confine fragile e sconosciuto, oltre il quale iniziava un’altra realtà. Luce—così si chiamava lei—era in cucina, a piedi nudi, coi capelli ancora umidi e una maglietta grigia consumata, senza ricordare perché si fosse svegliata alle sette. Non aveva impostato la sveglia. Aveva solo aperto gli occhi, e capito all’istante che qualcosa era cambiato.

Sul tavolo c’era una cartolina. Senza busta, appoggiata tra una tazza di tisana ai frutti di rosa canina ormai fredda e un pacchetto di cracker. Sembrava lasciata lì di sfuggita. La scrittura le era dolorosamente familiare—pulita, precisa, senza fronzoli. Era lo stesso carattere che Andrea usava per firmarle i biglietti di auguri: sobrio, ma con un calore nascosto in ogni lettera.

«Luce. Perdonami. Non ce l’ho fatta più. Non cercarmi. — A.»

Non la toccò. Si limitò a fissarla. Forse minuti, forse un’ora. Come se in quel rettangolo di carta si nascondesse una soglia, oltre la quale la sua vita sarebbe crollata. Poi accese la radio—l’annunciatore parlava allegramente del traffico sulla Tangenziale, come se nulla fosse successo. Come se il mondo non avesse perso una persona. Proprio quella che respirava accanto a lei ogni mattina.

Andrea se n’era andato di notte. Così aveva deciso lei—perché non aveva sentito passi, né lo sbattere della porta, né la serratura cigolare. Solo un attaccapanni vuoto nell’ingresso. La sua sciarpa—grigia, ruvida—era ancora lì. Non aveva nemmeno preso l’ombrello. Quello col manico di legno e il dettaglio rosso. Luce lo osservò a lungo, come se potesse rispondere a domande per cui non trovava parole.

Provò a ricordare l’ultima volta che avevano parlato davvero. Non della spazzatura o della lista della spesa, ma—del cuore. Forse ad aprile, su una panchina vicino al lago. Andrea aveva sussurrato: «Con te è difficile respirare». Lei aveva scherzato. E lui, forse, in quel momento, stava già dicendo addio.

A mezzogiorno, Luce rivide le vecchie foto. Eccoli insieme—sull’autobus, in montagna, in quella casa colonica. Ecco la sua mano sulla sua spalla. Ecco il suo braccio attorno alla sua vita mentre sorrideva. Quelle immagini una volta la scaldavano. Ora, dentro di sé, sentiva solo un’eco fredda e informe. Non piangeva nemmeno. Ed era questo a spaventarla di più. Come se ogni emozione si fosse consumata, lasciando solo un vuoto grigio e appiccicoso.

La sera chiamò Dario, un amico in comune. «Tutto bene?» chiese lui. Lei rispose: «Sì. Solo un po’ stanca». Mentì con facilità, senza esitazione. Come se avesse ripetuto quella frase per tutta la vita. Dopo la chiamata, rimase seduta al buio, ad ascoltare il rubinetto che gocciolava. Ogni goccia era un secondo in meno.

Due giorni dopo, raggiunse la Stazione Centrale. Solo per fermarsi ai binari e osservare la gente. Quelli che partivano, tornavano, si affrettavano, salutavano, abbracciavano, piangevano, ridevano. Tutti vivi. Tutti di corsa. E dentro di lei—silenzio, tirato come una corda. Andrea odiava le stazioni. Diceva: «Sembrano urlare che tutto è temporaneo». Non voleva nemmeno passarci vicino. Ma fu lì, davanti al treno, che Luce capì: non era uscito solo di casa. Era uscito dal loro “noi”. E forse, la strada per tornare indietro non esisteva più.

Il terzo giorno, prese l’ombrello. Lo mise vicino alla porta. Poi lo spostò. Poi lo rimise a posto. Come se fosse un’ancora. Un promemoria che qualcosa poteva ancora restare. O—tornare.

Passarono due settimane. La cartolina era ancora lì. A volte notava un velo di polvere sopra—e la soffiava via, come se avesse paura di cancellare le sue ultime parole. Altre volte le sembrava che la carta si scaldasse al suo avvicinarsi. Come se in quell’inchiostro pulsasse qualcosa di vivo—un residuo d’amore, di speranza, o di ciò che non aveva sentito allora.

E poi, una mattina—bussarono. Forte. Il postino. Un giorno qualunque, ma le sue dita tremavano. Sul modulo di consegna, il mittente: A. Rossetti.

Dentro—una lettera. E un biglietto. Un treno regionale per Sirmione. La carta era sgualcita, come se fosse stata in tasca a lungo. In fondo, una firma:

«Se vuoi, vieni. Se non vuoi, non ti trattengo. Dimmelo e basta. Non so fare altrimenti. Ma so ancora aspettare.»

Luce si sedette per terra nel corridoio, la schiena contro la porta. Il pavimento era gelido. Ed era il freddo più bello della sua vita. Perché era reale. Perché il dolore—significava che era ancora viva. Non piangeva. Stava lì, gli occhi chiusi. Qualcosa si strinse nel petto. E quella stretta non era disperazione. Era una possibilità.

A volte l’amore non se ne va. Si nasconde. Si annida nelle cose vecchie, nei ricordi di un profumo, in un ombrello vicino alla porta, in una scrittura conosciuta. E aspetta. Fino a quando non riesci di nuovo a respirare. Senza paura. Senza rabbia. Solo—respirare.

Luce arrivò alla stazione. Lui era lì. Senza fiori. Senza scuse. Ma con degli occhi che dicevano solo una cosa—luce.

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