Quando le mani ricordano la vita

Nella sala degli specializzandi regnava un silenzio innaturale, denso di tensione. L’ostetrica capo, Maria Bianchi, sedeva con gli occhi rossi di pianto, fissando una tazza vuota. Diverse tazzine di caffè freddo erano sparse in disordine, come abbandonate di fretta.

Ma la cosa più straziante era il tavolo. Quello stesso tavolo che sempre brillava di ordine perfetto: cartelle allineate, penne, graffette, tutto al suo posto. Il tavolo di un uomo leggendario: il dottor Enrico Russo, che tutti chiamavano Enrico. Quel giorno, però, era irriconoscibile. La sua scrivania era sommersa: fogli calpestati, cartelle cliniche scarabocchiate, mascherine accartocciate, scatole di farmaci vuote, bicchieri di plastica, bende, garze…

Enrico sedeva a capo chino, lo sguardo perso nel vuoto. Le sue mani tremavano—quelle stesse mani che per anni avevano compiuto miracoli in sala operatoria. Ampie, pesanti, con dita corte, non belle ma magiche. Con quelle mani aveva salvato madri, strappato bambini alla morte quando sembrava non ci fosse più speranza. Mai—mai prima d’allora avevo visto quelle mani tremare.

—È arrivata una denuncia… — mi sussurrò Maria, avvicinandosi alle mie orecchie. —Qualcuno di importante, dall’alto. I capi hanno urlato: «Pensionato, basta così». Finita. — La sua voce si spezzò. — Gli hanno detto: «Vai in pensione».

…Più di vent’anni prima.

Ero appena uscita dalla scuola di specializzazione. Io e Luca, mio compagno di studi, eravamo al nostro primo turno di guardia. Un parto gemellare, posizione trasversale, tempo quasi finito. Palpavo la testa, ma era di lato, a malapena riuscivo a raggiungerla. Luca reggeva l’addome, cercando di stabilizzare la posizione. Eravamo entrambi madidi di sudore, le mani scivolavano, il cuore in gola…

Poi entrò lui—Enrico. Senza fretta, calmo, infilò i guanti. Con un gesto preciso, come un direttore d’orchestra che coglie la nota giusta, attraverso la membrana sentì i piedini del bambino e—al primo sforzo li tirò fuori, al secondo già stringeva la neonata tra le braccia. Una femminuccia. Si mise a piangere subito. Era viva.

—Poteva esserci una lacerazione—disse piano. —La responsabilità sarebbe stata mia. L’ostetricia non è eroismo. È conoscenza. Leggete, giovani.

E noi leggevamo. Internet non c’era ancora. Ma c’era il tavolo di Enrico. E sotto, quei libri che non si trovavano né in biblioteca né in vendita.

…Quindici anni prima.

Notte fonda. Un parto prematuro, emorragia massiva. Il bambino non ce l’aveva fatta… La madre era al limite, io nel panico. Ero nella stanza fumatori, le dita tremanti mentre accendevo una sigaretta. Enrico si avvicinò, me la prese senza dire una parola, versò il mio caffè freddo nel lavandino e mi porse la sua borraccia.

—È una tisana. Con miele delle Alpi. Me lo porta ogni anno una paziente. Bevi piano. E prova a dormire un po’. Devi abituarti. Qui è così. Se ti spezzi il cuore per ogni caso, non arriverai al prossimo turno.

Mi sdraiai. Mi coprì con una coperta, spense la luce e chiuse la porta con delicatezza.

…Dieci anni prima.

Ero già primaria di guardia. Enrico era rimasto oltre l’orario, bloccato dalla burocrazia, e venne a salutarmi prima di andarsene. Nella sala parto, la donna spingeva, ma la dilatazione era lenta, la testa troppo alta. Poi, improvvisa, una bradicardia. Il bambino stava morendo. Non c’era tempo per il cesareo. L’unica soluzione: il forcipe.

Anestetizzai, ma le cucchiaie non si chiudevano. La mente vuota, il polso alle tempie, le mani gelate. Poi, una voce pacata alle mie spalle:

—Succede. Fatti da parte un momento…

Quando aveva fatto in tempo a sterilizzarsi? Mi spostò dolcemente, sistemò tutto con le sue mani. Ecco, le lame si allinearono. Ripresi io. Lui rimase lì, accanto. A sostenermi. Poi disse:

—Vado. Di nuovo in ritardo. A domani.

…Tre anni prima.

—Vedi questa rosa? —disse, sistemando gli occhiali. —Era rinsecchita, ora è alta un metro. E i colori! Giallo chiaro con sfumature arancioni. Hai mai visto come può sbocciare la vita?

Eravamo nella sua casa in campagna, il suo paradiso. Dove i ciliegi davano frutti da tre anni. Dove preparava ravioli di ciliegie con la pasta tirata a mano.

—Peccato che te ne vai. Porto i nipotini qui per due mesi. E tu… —mi guardò, e negli occhi non c’era né dolore né rancore. —Certo, mi manchi. Ma ora dormo. Lo immagini? Dormo come una persona normale. I primi mesi mi svegliavo di colpo, pensando a una chiamata d’emergenza. Poi non riuscivo ad addormentarmi perché non sapevo più come si faceva. Ma ora… ora vivo. Respiro. E forse, per la prima volta, capisco cosa vuol dire essere semplicemente un uomo. Non un medico. Solo un nonno. Con le rose. I nipoti. La casa.

Si interruppe, si alzò. E, passando accanto al cespuglio, raccolse una foglia ingiallita. Un gesto rapido, con due dita. La rosa non si mosse. Solo il sole accarezzò i suoi petali. E fu chiaro: le sue mani ricordavano ancora come salvare. Solo che ora salvavano il silenzio. Il giardino. La vita.

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