Finché la lampada arde, nulla è perduto.

Nell’ingresso, l’odore di cavolo stufato e fili elettrici vecchi si insinuava tra le fessure delle porte, appesantendosi sulle spalle come un ricordo che si rifiuta di svanire. Era lo stesso profumo che aleggiava quando Marta Antonietta era ancora giovane, quando i bambini correvano per casa, le pentre sbattevano, e la vita, seppur semplice, era rumorosa e piena. L’odore del suo passato. Del suo tempo. Di una quotidianità perduta, ormai irraggiungibile.

Si fermò davanti alle cassette della posta, stringendo la chiave con tale forza che sembrava potesse aprire ben più di una semplice porta. Sopra di lei, la lampadina opaca tremolava ancora, proiettando una luce pallida e azzurrina sul soffitto scrostato. Oltre quella porta, ad attendere c’era solo il silenzio, il fruscio di una vecchia tovaglia e il suono del proprio respiro, così fragoroso nel vuoto.

Un tempo, Pietro l’aspettava. Brontolava perché era di nuovo in ritardo, perché la minestra si sarebbe raffreddata. Eppure, nei suoi occhi c’era sempre una luce. Le prendeva il cappotto, metteva su l’acqua per il tè, le stringeva la mano—come se ogni volta fosse felice che lei fosse tornata. Anche quando le gambe non lo reggevano più, si alzava lo stesso per accoglierla. Perché sapeva: l’incontro era ciò che contava davvero.

Dopo il funerale, Marta Antonietta era tornata nello stesso appartamento. Tutto era al suo posto: le foto nelle cornici, la poltrona vicino alla finestra, la sua tazza, il grembiule di lei. Ma tutto sembrava ormai finto, svuotato, come se qualcuno avesse staccato la spina e spento ogni cosa. Erano rimaste solo forme, ombre prive di significato.

La casa cominciò a sembrarle immensa. Le pareti si allargavano, svanivano, lasciandola sola in quell’aria fredda e silenziosa. Anche le gocce dal rubinetto suonavano più forti, più inquietanti. Ogni sera, arrivando alla porta, tratteneva il fiato—chissà, forse, ancora una volta, avrebbe sentito la sua voce: *«Dove sei finita, Marta?»*

Ma oggi era un giorno speciale. Compiva ottantacinque anni. Un’età in cui non ci si aspetta più sorprese, ma si spera comunque. Magari una telefonata. Un biglietto. Qualcosa di vivo. Ma il telefono rimaneva muto. Le amiche erano ormai scomparse. La vicina, zia Luisa, era andata a vivere con la figlia a Bologna. Sua figlia? In Francia. Si sentivano di rado, in videochiamate veloci tra impegni e lezioni dei nipotini. E il nipote? Le aveva mandato uno sticker: *«Auguri, nonna!»*, per poi scomparire di nuovo nello schermo.

Aprì la porta. Passò davanti allo specchio senza guardarsi. In cucina, tutto era al suo posto: la tazza, la radio, le medicine, il davanzale vuoto dove un tempo fiorivano le violette. Accese la radio. Partì un vecchio motivo, quello stesso sotto cui Pietro, in piena pista da ballo, le aveva chiesto di sposarlo. Allora aveva riso tra le lacrime. E ora rideva di nuovo, ma sola. La gola si strinse, non di tristezza, ma dell’impossibilità di riavere tutto.

*«Finché la luce è accesa, sono viva»*, sussurrò, versandosi il tè. Lo disse ad alta voce, come se Pietro fosse lì accanto a lei. Scherzosamente, ma con quella risolutezza che solo gli anni sanno insegnare.

In quel momento, la lampadina sopra il tavolo tremolò. Una volta. Due. Poi si spense. La cucina divenne buia e stranamente silenziosa. L’aria si fece spessa, come quando, da bambina, il padre non era tornato dalla miniera e lei si nascondeva sotto le coperte, convinta che così la paura non l’avrebbe trovata.

Si avvicinò alla lampada. Si fermò. Toccò l’abat-jour. Caldo, ma senza vita. Poi, senza esitare, aprì il cassetto. Lì, nell’angolo, c’era ancora quella di scorta. Pietro diceva sempre: *«La luce è come il respiro. Finché c’è, viviamo»*. Sorrise. Salì con cautela sulla sedia, sostituì la lampadina con le mani tremanti. Un clic—e la luce tornò a inondare la cucina. Morbida, calda. Come una carezza.

Si sedette. Bevve un sorso. E pensò: *«Finché posso accenderla, non sono sola»*.

Poi, il campanello suonò. L’allarme della porta. Il cuore le fece un balzo. Chi poteva mai essere a quest’ora? Si avvicinò, accese lo schermo. Vide una ragazza, sui trent’anni, con un berretto rosso di lana e le guance arrossate dal freddo, un po’ impacciata.

*«Buonasera… Scusi l’ora. Sono del sesto piano. Caterina. Non ci conosciamo, ma… oggi è anche il mio compleanno. Ho pensato… forse possiamo bere un tè insieme? Ho preparato una torta. Storta, ma fatta in casa».*

Marta Antonietta fissò a lungo quel volto. Qualcosa dentro di si sbloccò, si sciolse. Premette il tasto. La serratura scattò. Il cuore batteva più veloce, non di paura—ma della sensazione che qualcosa, ancora, fosse possibile.

La lampadina sulla porta tremolò di nuovo. Ma questa volta, era diverso. Un segnale. Come se Pietro, da qualche parte lassù, le avesse fatto l’occhiolino: *«Vivi, Marta. Vivi finché puoi»*. E lei sorrise.

Perché, finché la luce è accesa, qualcuno arriva. E la vita—continua. Magari con volti nuovi, con voci diverse. Ma continua.

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Finché la lampada arde, nulla è perduto.