**Ritorno a me**
Quella sera capì che lui mentiva. Non dal tono, non dalle parole, ma dal suo silenzio. Luca sapeva tacere con dignità: lunghe pause, lo sguardo sfuggente, un’ombra di stanchezza sul viso. Un silenzio che poteva sembrare riflessione, profondità. Ma quella volta era diverso: fragile, tagliente, come una maschera sotto cui batteva qualcosa di vivo, goffo, incapace di nascondersi.
— Mi sono fermato a lavoro — disse, senza guardarla, e la sua voce inciampò contro un muro invisibile.
— Dove sei stato? — chiese lei piano, quasi sussurrando. Nella sua voce non c’era accusa né sospetto, solo una lieve carezza su ciò che da tempo la graffiava dentro.
— Da Matteo. Abbiamo discusso il progetto. Lo sai.
Lei sapeva. Ma sapeva anche altro: Matteo era partito per la Sicilia con la famiglia. Aveva visto le sue storie, sentito la sua risata nei messaggi vocali. Non chiese altro. Non discusse. Tutto divenne chiaro come il cristallo.
— Certo — rispose, sparecchiando la tazza dal tavolo. Il gesto era fluido, automatico, come di chi ha visto più di quanto volesse.
Più tardi, a letto, si sdraiarono come al solito: schiena contro schiena. Lui si addormentò subito, persino russò, come se nulla fosse cambiato. Lei invece fissò il buio, sentendo un nodo crescere nel petto. Non di gelosia, né di paura, ma di un’amara consapevolezza. Lenta, densa, come una goccia che indugia prima di cadere. Non una scoperta improvvisa, ma un tacito accordo con l’inevitabile. Come se qualcuno dentro di lei sussurrasse: «Eccolo. Ora lo sai».
Il giorno dopo comprò un biglietto per Bologna. Senza un piano, senza una ragione. Disse a Luca che sarebbe andata dalla sorella. Lui annuì troppo in fretta, con un sollievo che non seppe nascondere. La sua assenza non lo turbava, e questo rafforzò la sua decisione.
Bologna la accolse con vento freddo e odore d’asfalto bagnato. La città sembrava assonnata, come se non volesse svegliarsi. Affittò una stanza da una donna anziana, gli occhi stanchi, la voce logorata dal tempo. Dalla finestra si vedevano alberi spogli e un muro scrostato dove qualcuno aveva scritto: «Vivi finché il cuore batte».
Per tre giorni vagò senza meta. Non telefonò, non scrisse. Il telefono rimase in borsa, muto come un oggetto che non si vuole più toccare. Bevve caffè in piccole caffetterie, dove l’aria sapeva di vaniglia e solitudine—quella calda, confortevole, che abbraccia invece di ferire. Osservò la gente: chi correva, chi rideva, chi aspettava qualcuno. In ogni volto vedeva un riflesso di sé—quella di un tempo, con gli occhi luminosi, il cuore aperto, la fiducia nel domani.
Il quarto giorno si svegliò leggera, come libera da una vecchia pelle. Il corpo era senza peso, come se avesse riposato per anni, non per una notte. Uscì stringendo un bicchiere di carta con il caffè. Il mattino era silenzioso, senza promesse, ma pieno di vita. E all’improvviso lo capì: poteva non tornare. Poteva non essere quella che tutti si aspettavano, quella che doveva adeguarsi. Poteva essere semplicemente se stessa.
Poteva andarsene più lontano—non a Parigi o a Tokyo, ma a Napoli, a Palermo, a Verona. Città dove nessuno conosceva il suo nome né faceva domande. Viaggiare finché il passato non si fosse dissolto. Finché non fosse rimasta solo lei—senza ruoli, senza la maschera di “moglie” o “sorella”, senza le aspettative degli altri. Solo una donna. Viva. Con i suoi errori, le sue paure, i suoi sogni.
Alla stazione comprò un biglietto per Firenze. Poi per Venezia. Poi avrebbe visto. Dormì sui treni, la fronte appoggiata al vetro freddo. Mangiò cornetti alle stazioni, bevve tè in bicchieri di plastica. Scrisse su un taccuino—pensieri, frasi, frammenti di ricordi. Lesse Leopardi, rileggeva Ungaretti, sottolineava i versi che le trafiggevano il cuore. A volte piangeva. A volte rideva. Altre volte fissava solo il paesaggio, e a ogni fermata le sembrava di liberarsi di qualcosa di superfluo, finché non rimase solo l’essenziale: lei stessa.
Passarono quarantadue giorni.
Tornò a Milano all’inizio di aprile. Nell’appartamento che sapeva di polvere e passato dimenticato, come un museo abbandonato. Tutto era al suo posto, ma sbiadito: le tende, le tazze, i libri sugli scaffali. Luca era in cucina, come se non si fosse mosso da lì. Lo stesso sguardo. Le stesse pause. Le stesse ombre negli occhi, come se il tempo si fosse fermato.
— Dove sei stata? — chiese con quell’incertezza dietro cui si nascondeva sempre la menzogna.
— Cercavo me stessa — rispose. — E credo di avermi trovata.
Lui tacque. Le sue mani erano appoggiate al tavolo—tese, immobili. Ma lei non attese più una risposta. Non attese nulla.
Quella sera fece una valigia. Senza fretta. Prese solo vestiti, libri e un vecchio album di fotografie. Il resto—non era suo. Non quelle tazze, non quelle tende, non i rimpianti né la colpa. Tutto rimase indietro.
Non se ne andò da lui. Se ne andò verso sé stessa. Dove poteva respirare a pieni polmoni. Dove la voce non tremava. Dove, finalmente, era solo lei.
Poi arrivò un nuovo lavoro—semplice, ma suo. Con compiti chiari, con persone che apprezzavano ciò che faceva, con la sensazione di essere utile. Un piccolo appartamento con finestre su un cortile antico, dove al mattino cantavano gli uccelli e la sera il tramonto si rifletteva sui vetri come se brillasse solo per lei.
La sua voce divenne più ferma, perché non doveva più nasconderla. La sua risata era sincera, non per cortesia, ma perché veniva davvero dal cuore. Sgorgava naturale, come il respiro.
A volte lo sognava. Le stesse pareti, la stessa cucina. Ma nel sogno taceva in modo diverso—non per paura, non per stanchezza. Con calma. Come chi non ha più bisogno di spiegare perché vive come vive.
Perché il silenzio non le abitava più sotto la pelle. Viveva dentro di lei—come una casa. Accogliente, luminosa, con le finestre spalancate.
E non era una fuga. Era un ritorno.
Era l’inizio.