Cicatrici e Amicizia: Storia di un’Anima Invincibile

Cicatrici e amicizia: l’anima invincibile

Io e Giada siamo sedute sul suo balcone al quindicesimo piano di un condominio nuovo nella periferia di Milano. Lei, suo padre e sua nonna si sono trasferiti qui quattro anni fa. Suo padre è un avvocato per un’azienda edile che ha costruito questo palazzo. Hanno scelto un appartamento con un balcone spazioso proprio per Giada, per assecondare la sua passione. Suo padre poteva permetterselo. Il balcone è coibentato: pavimento riscaldato, termosifoni, pareti rivestite di piastrelle ruvide, piacevoli al tatto. Giada è ossessionata dalle piante d’appartamento e dai pesci d’acquario. In casa ci sono cinque acquari, uno in ogni stanza e uno qui, sul balcone.

Quello sul balcone è angolare, con luci soffuse e un sistema di filtraggio complesso di cui io non capisco nulla, mentre Giada potrebbe parlarne per ore. Dentro c’è un castello di ceramica con archi e torrette. I pesci nuotano fuori dalle sue finestre come guardiani di un regno subacqueo. Quattro pesci arancioni brillanti, il cui nome dimentico sempre, e uno particolare: un pesce siluro che Giada chiama “plecostomus dorato”. Lui è il netturbino dell’acquario.

Giada sa tutto dei suoi pesci. È attiva sui forum di acquariofilia, scrive articoli per siti specializzati e lì la rispettano. Con la stessa passione si dedica alle piante. Dopo il trasloco, le sue stanze si sono trasformate in giungle fiorite. Sul balcone c’è un’edera rampicante, vasi di violette appesi, alberelli di bonsai e abeti in miniatura.

Siamo sedute in quest’oasi verde, osservando attraverso l’ampia finestra il fiume Adda, i tetti delle case e il parco in lontananza. A destra, in basso, ronza l’autostrada che porta a Monza e Bergamo. Giada mi racconta di una gita con suo padre a raccogliere frutti di bosco. Sono arrivati in un posto così remoto che ci è riuscito solo il loro SUV. Hanno riempito i cestini, poi per tre giorni con la nonna hanno cucinato marmellate.

“Peccato che papà ora sia quasi sempre via. Lavora anche nei weekend. Il tempo è splendido, ma presto arriveranno le piogge e non potremo più uscire. Anna, proviamo ancora a fare quelle foto?” Giada mi guarda con supplica.

Sospiro. Andiamo nella sua camera, verde e accogliente come il balcone. Si siede davanti a uno sfondo bianco improvvisato. Scatto qualche foto, poi proviamo a sistemarle al computer. Le servono per dei documenti, ma sembra impossibile.

Le foto non vengono bene. Forse sono io una fotografa scarsa, o forse è qualcos’altro.

“Giada, smettila di fissarti. C’è uno studio fotografico al piano terra, vado a parlare con loro.”

Giada accetta a malincuore. Si rannicchia sulla poltrona del balcone, avvolta in una coperta, e si gira verso la finestra.

Prendo le chiavi e scendo. Il fotografo, un ragazzo giovane, è annoiato alla reception. Gli spiego che ci servono foto per documenti, ma che scatteremo a casa, al quindicesimo piano.

“Costerebbe…”

“Non importa il prezzo. Ci servono oggi, urgentemente.”

Saliamo. Il fotografo si blocca davanti all’acquario sul balcone, ammirato dai pesci. Esito.

“Sa… cerchi di non focalizzarvi troppo… La ragazza ha avuto un incidente, per questo non è venuta allo studio. Per favore.”

“Nessun problema. Il cliente paga, il resto non mi riguarda.”

Chiamo Giada. Esce, avvolta nella coperta come un bozzolo, si siede in silenzio davanti allo sfondo. Il fotografo regola la macchina fotografica, osservandola con curiosità.

“Pronto. Togli la coperta.”

Giada la toglie lentamente, si raddrizza. Il viso del fotografo impallidisce, un lampo di shock negli occhi.

“Dio…” mormora.

“Scatta,” dice Giada con voce sorda.

Lui preme rapidamente l’otturatore e io lo accompagno alla porta.

“Tua sorella?”

“No, la mia migliore amica. È incredibile, forte…”

“Ti credo. Ma la prossima volta avvisami prima.”

“L’ho fatto…”

“Sì, ma quando l’ho vista… Da quant’è così?”

“Ventidue anni.”

“Che orrore… Poverina.”

Gli porgo i soldi. Scuote la testa:

“Tra un’ora vieni a ritirare, le foto saranno pronte.”

Torno da Giada. È di nuovo sul balcone, nella coperta, le spalle tremano: sta piangendo. La abbraccio, le accarezzo i capelli, la cullo come una bambina.

“Non è niente, Giada. Tutto passa, passerà anche questo. Guarda, le foglie nel parco sono già gialle. Vuoi che vada a cercare le tue foglie d’acero preferite? O del gelato? Facciamo una festa?”

“Il gelato è già nel frigo, Anna. Mangia tu… Io non ho fame.”

Dieci anni fa camminavo lungo il corridoio conosciuto di un ospedale a Milano. Le infermiere, i dottori, le ausiliarie mi sorridevano, io salutavo tutti.

Alla postazione c’era un’infermiera anziana:

“Anna, quanto sei stata a casa? Quattro mesi? Di nuovo qui per le riparazioni?”

“Già, Teresa. Spero l’ultima volta.”

“Vediamo dove metterti… Il primo reparto è in ristrutturazione, qui siamo pieni. Persino nella stanza dei bambini hanno stretto i lettini.”

Ho sbirciato nella stanza dei bambini. Dieci lettini invece di sei, tutti occupati.

“C’è posto nella dodicesima. Ci vai?”

“Un semiprivato? Certo!”

Teresa ha sospirato, sorridendo a metà.

“Andiamo. C’è una brava ragazza, Giada Rinaldi. Avete la stessa età. Solo… ci vuole un po’ ad abituarsi a lei. Anche lei è rimasta ustionata. Gravemente.”

“Ustionata, che problema c’è? Ne ho viste di peggio.”

La dodicesima stanza è quasi un lusso. Doccia, bagno, un piccolo frigo, due letti regolabili. Si può persino mettere la TV.

Sono entrata. Il mio letto, vicino alla porta, era libero. Vicino alla finestra c’era una figura avvolta in una coperta, con la testa coperta. L’infermiera ha acceso la luce, aiutandomi a sistemare le cose. La ragazza restava in silenzio, sbirciando da sotto la coperta. Si vedevano solo gli occhi.

“Giada, questa è Anna. È gentile, vieni fuori.”

L’infermiera ha tirato via la coperta. Sono rimasta immobile. Giada non aveva un viso. Niente capelli, niente orecchie, al posto del naso solo buchi, labbra quasi invisibili. Il collo era sostenuto da un collare di gommapiuma. Niente guance,

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